L’UOMO CHE NON SAPEVA AMARE
Lars
in quella tiepida sera di maggio, mentre sfatto si guardava allo specchio, non
poteva fare altro che odiarsi profondamente.
Nella
sua alquanto sgangherata bacheca d’amorosi sensi perduti; l’ennesima débacle
all’orizzonte: incauto trofeo di una caccia assurda primeggiava,
affannosamente, nello squallore di un monotono déjà vu!
La
sua giovane mente, da assuefatto piccolo borghese di vedute assai ristrette,
appariva sempre più boriosa e confusa,vomitando, a tradimento, le mute parole
di un’antica poesia, partorita da uno
spirito in delirio:
“
Mi sono venduto ai pensieri più neri//di un giorno senza fine; di una notte
depauperata da ogni emozione propria.//Non ho più lacrime che bagnano questo
mio cuore arido ed affranto. Morta è ogni emozione dentro di me!//Voglio solo
vestirmi di questo silenzio ridondante.//Maledico me con estrema dolcezza,
mentre affondo in questo mare di nostalgia negata...//”
Il
giovane e sprovveduto Lars più si guardava riflesso in quel ventre di opaca ostilità,
più si rendeva certamente conto di quanto la sua stessa anima risultasse
sdrucita; di quanta immondizia si nascondesse dietro quel suo volto perso … di
Angelo nero.
Difficilmente
la sua medesima indole –così glaciale d’innanzi al sentimento altrui- si poteva
lasciare sedurre da quella strana voglia improvvisa di un sano e benefico
pianto liberatorio.
Ma
in quella maledetta circostanza così poco definita ed inattesa, le lacrime,
senza alcun pudore, gli vestivano, con una delicata tenerezza, quelle gote
d’alabastro!
E
così in quel suo piccolo mondo di certezze –fatto di castelli in aria e di
subdoli tranelli artificiosi- si annidava beffarda l’ombra oscura di LEI,
Rebecca la vogliosa!
Lei,
la sua lei,meravigliosa geisha del piacere più avvolgente; lei, infernale
tormento di una verità celata, di una verità difficile da sussurrare ai quattro
venti!
Lars,
pallido come un cencio, era sempre là! Ostinatamente immobile e prigioniero
della sua immagine, come fantasma in cerca della sua eternità!
Folle
pazzia di indigesti frammenti; susseguirsi disordinato di fastidiosi momenti di
blanda serenità, vigliaccamente ancorati in un’anima grondante di una utopica
malinconia!
Ricordi
indelebili di un letto sfatto nella breve passione di uno sbadiglio, mentre i
respiri, che prima si cercavano nell’intrigo benevolo di quella voglia
primordiale, andavano lentamente morendo nella penombra di una timida candela,
che illuminava quel drappo orientale, che sapeva di zenzero e di vaniglia.
Due
corpi sudati, uniti in una musica senza tempo, danzavano increduli in quei
brividi di tormento, che si completavano a sorpresa nelle stonature forzate di
quella nota fuori posto!
Lei,
tenera più che mai, lo prendeva per mano in quel malizioso gioco di sguardi,
trascinandolo in quella ragnatela metallica di un teorema votato all’ assurdo,
umiliandolo con quella leggiadra sciarada di baci convulsi, sperando invano in
un semplice “TI AMO”!
E
lui, bastardo più che mai, si lasciava accompagnare nella menzogna di
quell’isola che non c’era, perché troppa era la paura di risvegliarsi
l’indomani in un freddo letto vuoto!
Lars,
che sia maledetto lui! Si toccava freneticamente le labbra; quelle stesse
labbra che si saziavano, boriose, di fresca ipocrisia: tanti inutili ti amo
sempre più simili ad affilati coltelli, pronti a squarciare l’inconsapevole
preda di turno, una carcassa di beltà vestita, da mostrare, con gloriosa
tracotanza, al mondo intero.
Mentre
lei vittima perfetta, creatura predestinata era folle d’amore! E certamente,
vogliosa com’era, avrebbe fatto di tutto per lui; perfino venduto la sua acerba
essenza al primo Mefisto, che le avesse strizzato l’occhio per una notte di
fuochi d’artificio! Affinché il suo tarlo amoroso si potesse concretizzare in
un grido assoluto di passione ancestrale, senza limiti; senza confini!
A
lei, infelice ed illusa fino al midollo, non pesavano affatto quei quindici
anni di differenza; non le interessavano per niente le risatine dei ben
pensanti e le frecciatine velenose di un Lars scostante e maligno.
Lei
implorava semplicemente amore; anche un amore di circostanza, uno squallido
sentimento di plastica!
E
lui, quel barbaro invasore, puttana come appariva, lo sapeva benissimo! E così
ci giocava a più non posso! Solo sesso chiedeva; un gioco a due, di perversioni
reciproche, dove quell’anima debole e folgorata bramava, con la bava alla
bocca, un’esplosione incontrollata di sensi galeotti, in grado di innescare una
sciarada estrema di piccole schermaglie, da consumarsi sotto quelle lenzuola di
seta nera! Del resto, lo stesso Lars nella sua diabolica indole non era di
certo capace di manifestare fino in fondo uno straccio di trasporto emotivo!
Era come se quel giovane virgulto vivesse ogni suo amplesso in una sorta di
palestra virtuale, dove proprio lui era l’atleta di punta, l’uomo dei record!
E
così, in quello specchio di avvolgenti amarezze e di fini trabocchetti, non si
materializzava che un infingardo labirinto di ricordi funesti, che andavano
lentamente frantumandosi nel sorriso spento di un ragazzotto benestante, automa
di se stesso.
Era
dunque stata lei la parte tarata dei suoi primi trent’anni! Quell’assurdo
complotto di anime perse, che si svestivano della propria moralità, per
intraprendere una lunga ed estenuante cavalcata alla conquista del loro vello
d’oro!
Quel
loro primo e furtivo incontro,forse voluto da un destino beffardo, avveniva in
quel giardino fiorito, che costeggiava, in un dolce abbraccio, le antiche mura
della stessa chiesa in onore di Santa Barbara. Vivo era il sorriso di lei,
vestita a festa, in quell’abito corto a pois blu. Un fiore tra i capelli e
quella bionda tra le dita ingioiellate. Lei, gradevole ed appetibile, era
seduta su quella panchina di cedro antico, mentre, con civetteria, si
apprestava a sistemare quel trucco cascante.
E
lui spavaldo, come orrenda fiera in attesa di concupire sua sventurata preda,
si avvicinava guardingo e, senza proferir parola, le sfiorava la tremante mano.
Le sorrideva ammiccando proposte indecenti, fino a quando era sicuro che quelle
fragili barriere di difesa non fossero state pronte a crollare in modo
definitivo.
Lars
aveva vinto un’altra volta! Come godeva il Bastardo dentro di sé! Quel
parassita dell’amore aveva trovato un’altra volta la chiave giusta per scalfire
l’ennesimo cuore bisognoso d’amore! E adesso festa! Con una mano impudente le
accarezzava la chioma corvina e con quell’altra libera le sbottonava, uno ad
uno, quei bottoni di madreperla che impreziosivano quella camicetta bianca in
san gallo.
E
lei ubriacata, più che mai, da quella freccia di Cupido; dipingeva quella tela
ancora vergine! Scivolava lento, ma deciso il velluto della sua giovane mano,
che, come in una danza propiziatoria di un popolo lontano, esplorava goduriosa
quel possente corpo semi nudo di un Lars trionfante, alla scoperta di una
rinascita personale, nell’atrio più segreto di un’ Afrodite ritrovata!
Ricordi
brevi, istanti atrofizzati in quelle rugose pieghe di uno specchio mendacio!
Lars
era stanco, tremendamente stanco! La sua immagine riflessa lo infastidiva a tal
punto da succhiargli linfa vitale a
tradimento!
Era
ormai una specie di larva umana, che, per pigrizia e per paura di restare solo
con se stesso, si attaccava, con morbosa ossessione, all’amore di lei, sperando
in una pesca miracolosa!
Ma
proprio quel dannato san Valentino gli era stato fatale! Lei vedeva lui per la
prima volta; lei finalmente lo poteva percepire per quello che realmente era. E
subito, quei mille e mille castelli, in aria di armoniosa progettualità,
andavano sgretolandosi in un doloroso addio, vestito di rimpianti e di verità
inconfessabili.
Lui,
libero da ogni vincolo e mortificato nella sua vanità, accompagnava,
mesto, lei verso quel treno di libertà!
Nessuna parola nell’aria, solamente mani che si stringevano forti e sciami di
lacrime impazzite, che scendevano copiose nel silenzio di una colossale
sconfitta, che sanciva di fatto la fine di una farsa lunga una stagione.
Lars,
sfinito e vinto, si allontanava da quello specchio maledetto, e girandosi, di
scatto, verso il suo sécretaire, secondo impero, si versava un cognac d’annata,
premio consolatorio di un addio malinconico. All’improvviso, il ragazzotto
vizioso afferrava un pesante posacenere in pietra e, con una grande veemenza,
lo scagliava contro quel vetro profetico. Biancaneve aveva avuto un’altra volta
ragione! Si lasciò cadere a terra come un peso morto e si raggomitolò
nell’angolo più buio di quella stanza opprimente, proprio come era solito fare
da bambino, per sfuggire i tuoni e i lampi.
Una
macchia di sangue, lentamente, andava sfumando mesta su quelle quattro pareti
bianche di una gabbia senza uscita. Forse l’Angelo della Morte, di lì a poco,
avrebbe fatto la sua comparsa!
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