L’ultimo cavaliere senza macchia: presentazione e intervista a Lowe Von Adler
Anteprima da "L'ultimo cavaliere senza macchia" e cinque domande all'autore
"L'ultimo cavaliere senza macchia" è senz'altro un romanzo sui generis, forse difficile da digerire per la sua lucida follia! È una sorta di viaggio surreale, un viaggio metafisico di un uomo in pena che, guardandosi allo specchio non si vede! La sua stessa carnalità è andata scemando nella volgare affettazione di un mondo alla deriva! Egli medesimo si accorge dunque di non essere diventato altro che una sorta di malinconico burattino inesistente! Ma lui non demorde e tenta un ultimo colpo di coda per non affondare definitivamente ed inesorabilmente. È un cammino ad ampio respiro, che scalda i cuori... perché rigenerante! E sulla strada di una verità inconfessata si incontrano spiriti mesti... perché sfruttati e poi dimenticati... gettati impietosamente nel più bieco dimenticatoio!
DEDICA
Sabine, ascolta! Risuona nel vento la mia malinconia, che si infrange nella disillusione di un mondo che non c’è più,o forse non c’è mai stato. Io canto una canzone che rompe il mio cuore,
le cui note, in un crescendo di attimi silenziosi e compiti, applaudono un ieri così lontano. Io dipingo una donna che è svanita nel nulla del mio pensiero, più triste. Io sogno una fuga che mi conduca a te.
Sabine ascolta l’esile voce di un lamento antico. Chi è Sabine? E’ il non senso di un sorriso, che profuma di marmellata al limone,mentre l’impiccato chiude, inesorabile,
gli occhi alla vita: è la sconfitta di un mio gesto, quando si apre una finestra ed entra un raggio di sole. E’ la lacrima di un angelo, che si specchia nelle rughe
di una donna che bestemmia contro una vita sbagliata. E’ la canzone stonata di un perdente, che vomita quell’ultimo bicchiere. Chi è Sabine? È un pensiero
ancora vergine e scivola l’inchiostro su quella pergamena, dove tu meravigliosamente vera ti mostri nella tua luce più segreta. Albero di pesco nuovamente fiorisce nel giardino delle fate felici.
Immersa nell’abito tuo di rose nere entri nel cuore di quanti incontrano, a sorpresa, il tuo sguardo, in preda a quel sorriso, in orgia di sensazioni antiche. E ne restano assopiti, dannatamente rapiti, mentre quella tua gentile beltà si immola nella melodia di quel dolce ruffiano che ti chiede un bacio d’amore.
I violini suonano la tua canzone, a noi strana memoria di un girotondo di cherubini in festa, e il cielo si scopre nuovamente stellato. Quel giovane pittore, amore che fugge, accarezza le tue
gote d’alabastro ed intanto un aquilone di carta pesta, dono di un felice presagio, vola, fiero, nelle piaghe di questo mio animo così confuso. C’erano tutti – e tu lo sai – alle nozze sacre!
Il saccente ha distrutto il palazzo incantato e tu Sabine, mia grandissima utopia, ti rinchiudi nel guscio dell’umana follia; dov’è il bastone del saggio? Nel pianto di Freia!
Qualcuno ha rubato il nettare di Fricka! Nella fertile terra della nostra Signora, un gioielliere d’alto rango ha creato l’opera d’arte … incastonata tra quei monti
galeotti sta la cittadella alta, che veglia il tuo respiro. Guarda Sabine quei due giovani amanti, belli e fulgidi in quella loro lucida pazzia!
Ferma e muta trionfa l’immagine dell’artifizio allucinato; nel frattempo, bagnato dal pianto del Werther prussiano, sta un pallido sole, che sputa le sue mille nevrosi … e la fontana, avvolta nell’enfasi di uno strano incantesimo, zampilla gli ultimi istanti di una pace oramai perduta.
le cui note, in un crescendo di attimi silenziosi e compiti, applaudono un ieri così lontano. Io dipingo una donna che è svanita nel nulla del mio pensiero, più triste. Io sogno una fuga che mi conduca a te.
Sabine ascolta l’esile voce di un lamento antico. Chi è Sabine? E’ il non senso di un sorriso, che profuma di marmellata al limone,mentre l’impiccato chiude, inesorabile,
gli occhi alla vita: è la sconfitta di un mio gesto, quando si apre una finestra ed entra un raggio di sole. E’ la lacrima di un angelo, che si specchia nelle rughe
di una donna che bestemmia contro una vita sbagliata. E’ la canzone stonata di un perdente, che vomita quell’ultimo bicchiere. Chi è Sabine? È un pensiero
ancora vergine e scivola l’inchiostro su quella pergamena, dove tu meravigliosamente vera ti mostri nella tua luce più segreta. Albero di pesco nuovamente fiorisce nel giardino delle fate felici.
Immersa nell’abito tuo di rose nere entri nel cuore di quanti incontrano, a sorpresa, il tuo sguardo, in preda a quel sorriso, in orgia di sensazioni antiche. E ne restano assopiti, dannatamente rapiti, mentre quella tua gentile beltà si immola nella melodia di quel dolce ruffiano che ti chiede un bacio d’amore.
I violini suonano la tua canzone, a noi strana memoria di un girotondo di cherubini in festa, e il cielo si scopre nuovamente stellato. Quel giovane pittore, amore che fugge, accarezza le tue
gote d’alabastro ed intanto un aquilone di carta pesta, dono di un felice presagio, vola, fiero, nelle piaghe di questo mio animo così confuso. C’erano tutti – e tu lo sai – alle nozze sacre!
Il saccente ha distrutto il palazzo incantato e tu Sabine, mia grandissima utopia, ti rinchiudi nel guscio dell’umana follia; dov’è il bastone del saggio? Nel pianto di Freia!
Qualcuno ha rubato il nettare di Fricka! Nella fertile terra della nostra Signora, un gioielliere d’alto rango ha creato l’opera d’arte … incastonata tra quei monti
galeotti sta la cittadella alta, che veglia il tuo respiro. Guarda Sabine quei due giovani amanti, belli e fulgidi in quella loro lucida pazzia!
Ferma e muta trionfa l’immagine dell’artifizio allucinato; nel frattempo, bagnato dal pianto del Werther prussiano, sta un pallido sole, che sputa le sue mille nevrosi … e la fontana, avvolta nell’enfasi di uno strano incantesimo, zampilla gli ultimi istanti di una pace oramai perduta.
Sventola il leone alato nel vento del ricordo. In cima alla disperazione; otto amanti tuoi vogliono
una tua carezza appassionata; ma quel mondo così bastardo e futile li deride come pazzi in camicia di gran gala. Hanno tentato invano di distruggere le tue catene, affinché tu potessi
ancora giocare, libera, in quel castello di carta velina; affinché tu potessi guarire il tuo popolo stanco ed oppresso e magari ricevere, a gentil tradimento, un sorso dell’ebbrezza divina, per poi donare una pugnalata senza storia e domandarsi,
come cretini, che senso abbia nascere per sotterrare l’amore.
una tua carezza appassionata; ma quel mondo così bastardo e futile li deride come pazzi in camicia di gran gala. Hanno tentato invano di distruggere le tue catene, affinché tu potessi
ancora giocare, libera, in quel castello di carta velina; affinché tu potessi guarire il tuo popolo stanco ed oppresso e magari ricevere, a gentil tradimento, un sorso dell’ebbrezza divina, per poi donare una pugnalata senza storia e domandarsi,
come cretini, che senso abbia nascere per sotterrare l’amore.
CAPTATIO BENEVOLENTIA
LETTERA A SABINE
Cara Sabine,
io scrivo a Te in questa sera di maggio, sebbene io percepisca nel mio gesto una sottile vena di lucida follia, che senz’altro un po’ mi appartiene.
Tu sei e resterai la mia sola grande Musa ispiratrice e non mi importa se i più mi guarderanno con sospetto, perché ogni sorta di commento altrui è per me fonte di grassa ilarità. E del resto, a dirla tutta, “la mamma dei cretini resta sempre in cinta!”
Tu sei come quel leggero venticello, che, sorridendo, rincorri quel contadino laborioso, accaldato dalla fatica del quotidiano.
Tu rappresenti quella triste melodia, vestita di nostalgica passione, capace di rapire le emozioni più crude di quel giovane artista, profumo di genio, che, in silenzio, amoreggia nell’opulenza di colori ribelli, che si stendono supini su quella tela, ancora intonsa.
La Tua Anima, così nobile e perversa, si sposa a pieno con la creatività spavalda di colui che, ancor oggi, in questo tempo di puttane sempre in vendita, trova l’attimo propizio per abbandonarsi, nudo alla meta, a sogni sempre più blasfemi.
Se chiudo gli occhi in quella notte, dove quei Tuoi ingombranti pensieri di rivalsa si fanno sempre più Misteri; io mi accorgo di essere più stupido che mai! Perché Ti vedo in quel gazebo di rose nere, mentre sei intenta a sorseggiare, da quel calice dorato, emblema del Tuo sacro Rango, il sangue di quel tuo ultimo amante!
Sei Tu, semplicemente Tu, dolce Sabine, la legittima Discendenza della “Fricka” Germanica.
Non è forse Tua Madre, fedele Custode di quel Nettare angelico, tanto caro al divino Wotan e alla Sua Celeste Stirpe?
Più Ti penso, più cresce in me quell’assurdo azzardo di vederTi: quella voglia matta di far incrociare, per la prima volta, i nostri sguardi trasognanti; quell’assurda pretesa che gli stessi si possano finalmente congiungere in un’ estasi subliminale, anche se fosse solamente per un breve istante! Per poter finalmente provare l’ebbrezza di quella stessa passione, che aveva proiettato nell’armonia dei sensi perduti gli infernali Paolo e Francesca.
Vorrei che il Tuo Soffio di Vita Eterna spronasse il mio intelletto, che toccasse le corde del mio cuore, affinché questa mia penna malata scivolasse, bramosa, su quell’ennesimo foglio, ancora vergine.
Ma Tu, sdegnosa per Natura, sei alquanto evasiva, capricciosa: un giorno io esisto, e Tu mi illudi con i Tuoi Baci di passione, per poi, senza ritegno, negarmi la Tua Mano … il Tuo sostegno!
E sei subito pronta, come una squallida Messalina, invasata, a sedurne un altro. Ed io resto lì, come un idiota qualunque, smarrito nei miei mille perché di un dolore indecente.
Se avessi la certezza matematica che, donandoTi una rosa rossa Tu saresti solo mia; la coglierei subito e, con occhi chiusi e cuore aperto, cercherei dunque la più bella nel giardino delle proibizioni.
Eppure, quando sono solo e mi guardo dentro, io comprendo bene che questa mia gabbia dorata non potrà mai appartenerTi fino in fondo; perché Tu sei libera di volare e non appartieni a nessuno, tanto meno appartieni a me!
E spesso, sono sincero, cercandoTi invano, io spero che Tu possa spezzare questo mio giogo, che mi tiene ancorato a questa realtà sempre più opprimente.
Vorrei volare anch’io, con Te, sul Tuo Pegaso!
Scriverei di quei due innamorati che per troppo amore sono svaniti nel nulla. Dipingerei, con i colori del cielo, lo sguardo sognante di una giovane mamma, che stringe, per la prima volta, quell’angelo biondo, di talco vestito, al suo grembo ancora caldo. Tradurrei, in versi di malinconia, quel languido lamento di un vecchierello canuto, che si ostina, con le lacrime agli occhi, ad invocare il suo ieri. Correrei, a piedi scalzi, in quel campo fiorito, inseguendo un cucciolo di cane…
Alla Mia Musa, Sabine, io rinnovo il mio Saluto. E che queste parole la inducano a non dimenticarsi di me! Che la Sua Ispirazione sia la mia ispirazione; e che il mio canto non si svenda mai alla falsità e alla ipocrisia di un millennio tutto da dimenticare.
Un abbraccio
Tuo per sempre Jacob
PREFAZIONE
E’ questo dunque una sorta di viaggio immaginario in terra d’oblio, vissuto e celebrato nell’incertezza e nella precarietà; un viaggio affascinante e nel contempo misterioso, in cui il medesimo uomo resta affascinato dalla Signora del Nostro Cinema, OSSESSIONE, magnifica, per eleganza e verità d’intento, l’ultima vera Diva della Settima Arte!
Tutto ha inizio, quando il mondo, nella sua più intima implosione, va scontrandosi con l’incertezza e la fragilità umana, la quale, in virtù della sua più segreta verità, decide di abbandonarsi alla più fertile pazzia, per applaudire, in un profetico silenzio, la virtuale fine di ogni nesso logico, che contribuisce al mantenimento forzato di una consuetudine falsa ed approssimativa.
Il mondo scricchiola ed ogni cosa sembra destinata ad infrangersi contro il muro invisibile della dilagante tracotanza di un uomo finito, umiliato, perso nella sua più totale ed irrimediabile stupidità all’ennesima potenza! L’uomo è morto nelle piaghe di quel mostro a due teste che ha vinto la battaglia e che ora si appresta a vincere l’intera guerra, sferrando il colpo di grazia, nei confronti di una società malata, bastarda; una società di individui inutili e superflui!
Ma la speranza è l’ultima a morire! E il cavaliere senza macchia, nostro più intimo amico, cavalca il suo bianco destriero e attraversa la buia selva della nostra stessa cattiveria, addomesticando in un’orgia quasi mistica, gli ultimi rimasugli di piccoli cuori sanguinanti, ancora in grado di amare.
E forse l’oscurità delle tenebre verrà rischiarata, a sorpresa, da quella piccola candela d’argento, che illumina, convinta e sincera, l’anima bella di NOSTRA SIGNORA DELLA MONTAGNA.
È un tracciato fantastico, dove la connotazione spazio-temporale si annulla repentinamente, con la gradita consapevolezza di un POI rivelatore, momento catartico per eccellenza.
E’ la ricerca perpetua di un’ ETERNITA’ conclamata; voglia appassionata di toccare con mano la propria ESSENZA, svestendosi di quell’armatura che ci opprime dentro, festeggiando, a sorpresa, il solenne ricongiungimento col nostro GODOT di turno.
Un viaggio silenzioso in compagnia del GENIO della LAMPADA, con cui VISO d’ANGELO si imbatte in discussioni tragicamente abusate e ostinatamente tradite dal nulla di una perfezione ad ogni costo, nell’enfasi primordiale di quei quattro CHERUBINI impazziti.
Una dolce utopia da ricercare, senza inganni e senza trucchi, nella meraviglia agghiacciante di una luna vestita a festa, che strizza l’occhio voglioso a quel bacio di stelle infatuate, mentre il folle vento di una primavera lontana sussurra a quel sorriso basito la gioia di due giovani menti, che si riscoprono nude per la prima volta, nell’infuocato rossore di due gote in fiore.
E’ un itinerario di scatenata libertà d’azione, che si traduce in quel desiderio inafferrabile di leggerezza di sensi legati al nesso logico di un giorno lungo una notte; la fobia, senza velo, di tuffarsi, increduli, nella verità assordante di quel bimbo vispo, che scivola nella contentezza estrema di quella lieta estate, senza fine.
E’ il desiderio inconsueto di malinconia, una bramosia inspiegabile di sparire nel dolore accettato di un vecchio barbone che non crede più al domani, l’ultimo sorso di una vita alla deriva, per poi gettarsi finalmente tra le invitanti lenzuola di un Morfeo accogliente.
E’ quella costante preghiera di un silenzio rumoroso, che ti costringe ad annullarti in quel canto tantrico, mentre un’anima persa conta le rughe dei suoi perché, leggeri, come quella piuma, che scompare nella brezza più intima di un respiro, lungo un’ETERNITA’!
E’ la rivincita della fragilità umana, che si scompone, mesta e lenta, in quei piccoli frammenti di aulici pensieri.
L’io si congiunge al non- io e il tutto abbraccia il nulla, descrivendo una notte che, in mistico aspetto, sposa quella aulica sublimazione interiore, tremolante in un’orgia senza fine.
PRIMA PARTE:
La perdita del NESSO LOGICO
Nel buio più profondo di un millennio alla deriva, la terra è ormai sommersa da quelle acque in rivolta, che , spavalde, e senza indugi, hanno rotto quegli argini dell’umana follia!
E tutto assomiglia sempre più ad una enorme accozzaglia di stupide menzogne, studiate a tavolino, per fare impazzire il buon PADRE DI FAMIGLIA …
Immondizia di giovani e vecchi cuori, ricoverati in grigie corsie di ospedali per anime perse, vanno lentamente consumandosi nella tracotanza mistificatrice di quel bavoso mostro in litania di orgiastica celebrazione.
Maledetto Mostro a due teste, che, digrignando gli aguzzi denti, si eccita al solo pensiero di cibarsi del conclamato terrore di uomini sbagliati, semplicemente allo sbando.
Inferno colossale di grida strazianti che, implorando perdono, invocano pietà a Freia addolorata, sperando nella salvifica venuta ad hoc di quell’ Angelo vestito di fuoco che regala attimi di vanità!
Ed intanto una musica assordante ti fa letteralmente impazzire dentro quella scatola cranica, ormai in tilt e quel cervello, vestito di ragnatele metalliche, si scontra con un dolore atroce che, implacabile, ti lacera tutto, fino al tuo budello, fino alla parte più corrotta della tua insignificante essenza di essere umano senza storia e senza gloria. E ti accorgi all’improvviso di essere solamente uno squallido individuo, un giullare di un tempo asfissiante!
Grossi scarafaggi neri, in dialetto augusteo” bagarozzi”per nomea – con la valigia sempre pronta- e ben pasciuti nel calore di quel fienile complice, vanno somigliando, per fattezze e buona volontà, sempre più, a degli appetitosi maiali da macello; i quali, con incedere sospetto, sul quel campo di battaglia, cedono a quella malsana idea di un prossimo ed imminente attacco, da un nemico sconosciuto.
Vasti campi di grano infetto, bruciati dall’arsura più nera e da quella “silenziosa sfiga”, monitorata, con perversione assoluta, in quello sconfinato mondo paranoico; partoriscono creature indefinite, che si eclissano in quelle quattro “balle di circostanza”, immonda volgarizzazione di quelle atroci libertà violate, da quella allucinante schiavitù purtroppo più volte dichiarata in un sogno di una notte di mezza estate.
Mille papaveri rossi, vestiti a lutto, nel pensiero voluttuoso di quella puttana zoppa, che cerca invano, nel cassonetto più lercio, la fresca carogna, massacrata a sassate, di quell’ultima sveltina, nata nella solitudine di quel suo cuore malato, malato di una malinconia inaspettata!
Urla feroci e dissacranti di piccoli gnomi, perfidi e sporchi, che vomitano –a più riprese- cattiverie assortite e intanto quel girotondo di bimbi , spaventati dal nulla, sparisce, lentamente, nell’oscurità più profonda, perdendosi in quel labirinto di luci fioche, nelle feroci fauci, insanguinate, di quell’ultimo mostro sbattuto, per meriti di audience, in copertina!
E quella plumbea atmosfera, senza capo e senza coda, rumoreggia a furor di popolo, stordita nello schiaffo nefasto di un dio senza gloria; mentre losche melodie, straripanti di non senso, solleticano spettri in odore di una tardiva vendetta a denti stretti. Maledetta sia perciò … quella clessidra di vetro opaco che scandisce, a singhiozzo e in un silenzio quasi assordante, un tempo infame – che ahimè – non è più tempo!
Maledetta – lo ripeto col senno di poi – sia quella clessidra di vetro opaco, dove una leggera sabbia di insignificanti verità e di velenose menzogne a ventosa, si consumano assai lentamente nell’umana affettazione. E tutto si tinge di una pigra tracotanza velata, senza ormai più mordente, senza oramai più storia!
Come è nata l’idea di questo libro?
In una stagione di sconforto dove ahimè mi sono reso conto di aver perduto il nesso logico… di aver perduto la strada maestra, in una fitta nebbia di errori e dubbi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Da uno a dieci… nove: libro difficile, romanzo sui generis, flusso di coscienza fluttuante ed inarrestabile.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Proust e Kafka.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Nato e cresciuto nella provincia cremonese.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Promuovere mia raccolta di poesie dal titolo Dietro La Porta Dell’Illusione e scrivere un romanzo a 4 mani
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