RICORRENZE POETICHE
Novalis, le poesie più belle
Il 2 maggio 1772 nasceva il poeta e scrittore e tedesco Novalis, pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg
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Novalis, le poesie più belle del precursore del Romanticismo tedesco
Il 2 maggio 1772 nasceva il poeta e scrittore e tedesco Novalis, pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg. È stato uno dei più importanti rappresentanti del Romanticismo tedesco. Appassionato di religione e prolifico autore di poesie dal contenuto mistico e filosofico, i suoi scritti hanno uno stile sentimentale e amoroso originalissimo per l’epoca. Viene infatti considerato uno dei precursori della letteratura moderna. Lo ricordiamo oggi con una selezione delle sue poesie più famose
Anelito di morte
Laggiù nel suo grembo, lontano
Dai regni della luce, ci accolga
La terra! Furia di dolori e spinta
Selvaggia è segno di lieta partenza.
Dentro l’angusta barca è veloce
L’approdo alla riva del cielo.
Sia lodata da noi l’eterna notte,
Sia lodato il sonno eterno.
Ci ha riscaldati il torrido giorno,
ci ha fatti avvizzire il lungo affanno.
Non ci attraggono più terre straniere,
vogliamo tornare alla casa del Padre
Tra le mille ore felici
Tra le mille ore felici
che ho trascorso nella vita,
una sola in me resta per sempre:
quella in cui tra mille dolori
io sentii nel profondo del cuore
chi per noi morì di passione.
Il mio mondo era in frantumi
come se un verme lo avesse corroso,
vizza la fioritura del mio cuore;
ogni bene che avevo e che sognavo
nella vita era chiuso in una tomba,
qui stavo ancora per il mio tormento.
Piangevo sempre, anelando a fuggire
lontano, e in segreto mi torturavo,
davanti a me solo angoscia e inganno:
la pietra del sepolcro all’improvviso
come dall’alto mi fu sollevata,
e si dischiuse nell’intimo il cuore.
Chi ho visto, e chi alla sua mano
mi apparve, non chieda nessuno,
questo soltanto vedrò in eterno;
e questa sola, tra tutte le ore
della mia vita, serena e aperta
starà per sempre, come le mie piaghe.
Chi ti ha guardata una volta, irretito
Chi ti ha guardata una volta, irretito
non sarà mai dalla rovina, o Madre;
da te lontano, cede alla tristezza,
ti amerà sempre con passione ardente,
e la memoria in lui della tua grazia
resta il più alto volo del suo spirito.
Mi volgo a te con devozione immensa,
tu già conosci quello che mi manca.
Sii tenera con me, Madre soave,
dammi un segno di gioia, finalmente.
Tutta la mia esistenza in te riposa,
resta vicino a me solo un istante.
Più volte nei miei sogni ti ho veduta
così bella, e nell’intimo amorosa;
il piccolo dio che avevi tra le braccia
voleva muoversi a pietà del compagno;
ma tu tornasti, levando il tuo sguardo
sublime, tra le nuvole in tripudio.
Me infelice! che cosa ti ho mai fatto?
Pieno di nostalgia, ti prego ancora;
non sono il luogo dove la mia vita
trova pace, le tue cappelle sante?
Regina benedetta,
prenditi questo cuore e questa vita.
Lo sai, regina amata,
che sono tutto interamente tuo.
Non ho goduto già da lungo tempo
nel segreto del cuore la tua grazia?
Quando ero ancora ignaro di me stesso
succhiavo il latte al tuo beato seno.
Sei stata accanto a me infinite volte,
guardavo a te con gioia di fanciullo;
mi tendeva le mani – perché un giorno
potesse ritrovarmi – il tuo bambino.
Con dolce e tenero sorriso – oh tempo
di paradiso! – un bacio tu mi davi.
Questo beato mondo ora è lontano,
e già da tempo il lutto mi accompagna,
perdutamente ho continuato a errare:
dunque ho peccato in modo così grave?
Fanciullo, tocco l’orlo del tuo manto,
svegliami tu da questo grave sogno.
Solo un fanciullo può guardarti in viso,
con fiducia aspettare il tuo soccorso;
allora sciogli il vincolo degli anni,
ch’io ritorni com’ero, il tuo bambino.
Vivono in me la fedeltà, l’amore
mio di fanciullo, da quel tempo d’oro.
Non so che piangere
Non so che piangere, piangere sempre:
oh, se potesse una volta soltanto,
una sola, apparirmi da lontano!
Santa tristezza! Durano eterni
le mie lacrime e i miei patimenti;
potessi impietrire qui sull’istante.
Lo vedo sempre soltanto soffrire,
lo vedo spirare pregando in eterno.
Oh, non si spezzi questo mio cuore,
e le mie palpebre più non si chiudano;
io questa gioia – di sciogliere in pianto
tutto me stesso – non l’ho meritata.
Perché non c’è nessuno che pianga?
Così dileguarsi dovrà il suo nome?
Forse d’un tratto il mondo è morto?
Non potrò attingere più fiducioso
dai suoi occhi l’amore e la vita?
Veramente per sempre egli è morto?
Morto, – che cosa può significare?
Oh, ditemelo dunque voi sapienti,
dite il senso che può, che deve avere.
Egli è muto, e tacciono tutti,
nessuno in terra il luogo mi rivela
dove il mio cuore potrà ritrovarlo.
Non c’è un luogo qui sulla terra
che possa ancora rendermi felice,
tutto è come un torbido sogno.
Anch’io sono spirato con lui;
e vorrei già, nel sotterraneo spazio
con lui deposto, riposare in pace.
Poiché suo padre e mio tu sei,
vieni e raccogli accanto alle sue
queste mie ossa, senza indugiare.
Sulla sua tomba, che sarà presto
verde, leggero soffierà il vento,
trasmutando l’umana sembianza.
Sarebbero cristiani, se il suo amore
conoscessero a fondo, tutti gli uomini,
dimentichi di quello che non conta;
e amando tutti soltanto quell’Uno,
con me sarebbero uniti nel pianto
fino a dissolversi in amaro dolore.
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