Il mito del vagabondo: Marcello Gallian

Il mito del vagabondo: Marcello GallianMarcello Gallian rappresentò a pieno titolo, nella prima metà del Novecento italiano, l’artista ribelle e anticonformista per antonomasia. Non solo mostrò una solerte predisposizione per il racconto; ma anche un pregevole attaccamento al mito del “vagabondo”, inteso come intensa e sentita idolatria verso quell’essere reso “ultimo” dalla natura, cattiva matrigna. Produsse così una grande quantità di scritti volti a ridare una certa dignità di fondo a quelle figure sradicate ed emarginate dalla realtà medesima. Fu dunque scrittore e drammaturgo poliedrico e dissacratorio. Ebbe i suoi natali nella città di Roma, nel 1902. Anche se crebbe nella città di Firenze presso un convento di Vallombrosiani, fu un convinto fautore della dottrina fascista. Attivissimo tra gli anni Venti e Trenta si mostrò assai deciso nel caldeggiare una sorta di politica culturale avanguardista, che sotto l’etichetta fascista muoveva i suoi passi in accesa polemica antiborghese ed eversiva.

 

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Il suo compito fu quello di prendere di petto quel filisteismo borghese, quel fariseismo cattolico (Papini fu uno dei suoi bersagli preferiti), quel consumismo dilagante: mitizzazioni esasperanti del dio denaro. Certamente questo suo modo di fare dette assai fastidio a molti intellettuali e politici del tempo; e tutto ciò si tradusse dunque in continue recriminazioni da parte dello stesso regime al quale lui stesso ebbe dato sua più totale adesione, soprattutto in materia di pièce teatrali, in cui lo stesso scrittore denunciava senza alcun filtro i mali sociali italiani derivanti dalla gestione di una sola classe.

Valga per tutti l’esempio della pièce La scoperta della terra rappresentato al Teatro degli Indipendenti gestito da A. G. Bragaglia, in cui Gallian affidò a una prostituta generosa e assai appassionata l’oneroso compito di guidare la rivolta dei minatori e dei baraccati del Traansval, simbolicamente rappresentativi di tutte le razze e di tutti gli uomini oppressi.

Massimo Bontempelli con gran soddisfazione lo iscrisse fra i novecentisti doc; gli dedicò perfino la prefazione per Ildramma nella latteriadel 1928 e per Nascita di un figlio del 1929, volumetto antologico che raccoglieva i pezzi più significativi che il medesimo Gallian aveva pubblicato su «900», con cui l’editore Ghelardini inaugurò la collana “Sintesi” delle edizioni Atlas, che ospiterà poi anche molti immaginisti, la cui poetica influirà non poco su quella di Gallian.

Nel 1931 ai due già citati testi e ai romanzi Vita di uno sconosciuto e La donna fatale, entrambi datati 1929, si aggiunse Pugilatore di paese, pubblicato dall’editore d’avanguardia Carabba, il quale vinse il primo premio Mediterraneo a Sanremo.

Nel 1932 a dieci anni dalla marcia su Roma, fatti i primi bilanci si pensò a un rilancio vero e proprio della cultura rivoluzionaria squadrista e antiborghese fascista. Gallian abbracciò in toto la poetica novecentesca, la linea culturale e sperimentale del Teatro degli Indipendenti e si esaltò per l’arte giovane del Novecento, il cinema, esaltandone la formula non realistica, quella caldeggiata da Blasetti nelle pagine de «Lo spettacolo d’Italia».

Ma la sua satira antiborghese si scatenò in uno stile esasperatamente barocco ed espressionista nei romanzi: Tre generazioni(1936), Il monumento personale (1937), Tenebra solare, combatteva un uomo (1939).

Gallian fu dunque romanziere assai prolifico: scrisse moltissimi racconti e alcune poesie. A cavallo degli anni Trenta produsse e fece rappresentare le sue opere teatrali e stese i racconti più freschi e surreali raccolti in Quasi una vita (1925-1926) e in Nascita di un figlio.

Non è escluso che abbia anche assorbito l’influenza della psicanalisi attraverso un intenso rapporto di stima e di amicizia con il medico ungherese MichosSisa, alias l’immaginista Kosza.

Il mito del vagabondo: Marcello Gallian

In questo modo in molte sue opere si sviluppò l’idea di una dicotomia di base dell’intera realtà, tra com’era e come avrebbe dovuto essere, tra bene e male,tra corpo e spirito,tra vecchiaia e gioventù, tra uomo e donna all’interno della coppia.

Nacquero così racconti, quali Una vecchia perduta (1933); il romanzo Tempo di pace (1934),Bassifondo (1935), che uscì tagliato, censurato econ un titolo più neutro, In fondo al quartiere. Ma già in La donna fatale e Vita di uno sconosciuto; Gallian dovette subire l’onta della censura a causa del notevole spazio che l’anormalità di certi impulsi amorosi si era ritagliata.

Alla negatività di una società corrotta, vuota, falsa e stupidamente conformista quale quella borghese, il buon Gallian oppose paradossalmente il profilo poetico delle sue prostitute, generose, libere, consapevoli e …dei suoi eroi emarginati, stravaganti, primitivi, selvaggi e poveri, allucinati e visionari, vitali e nietzscheani come il Lazzaro che, risorto, esprimeva con violenza una gran fame di tutto: cibo, donne, amore, vita, riso (La casa di Lazzaro); oppure come Tom che ritornava a un mitico stato di natura primordiale, preideologico e preindustriale, fatto di bisogni corporali, di desideri, di avventure (Il pugilatore di paese).

 

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Gallian non si risparmiò neppure concessioni al macabro, al deforme, accentuandolo con metafore teriomorfiche (topi, ragni) e allusioni oniriche che in alcuni racconti richiamavano le immagini visionarie di Lautréamont: analogo descrittivismo maniacale e ossessivo di oggetti fondamentalmente inutili, desueti accanto a una espressività tutta corporale: urla, grida, fame, sete, sesso, rughe, pieghe.

Sono perciò vagabondi per Gallian gli ubriachi avvolti nei loro odori nauseanti; una folla di storpi, sradicati, ciechi, vecchi, malati, prostitute, vecchie beghine, carosello di sessualità perversa, accoppiamenti strani, sadismo…insomma una messa in scena di situazioni dal sapore kafkiano piena di coincidenze, casi e metamorfosi.

Infine più morboso, trasgressivo, voyeuristico appariva l’occhio di Gallian bambino nei primi capitoli di Comando di Tappa, premio Viareggio 1934. Qui lo stesso scrittore raggiunse traguardi notevoli, prodotti dalla sperimentazione linguistica di fantasticherie e di barocchismi ricchi, non dimenticando il fine intuito psicanalitico, con cui indagava e interpretava, con gli occhi curiosi del bambino, le ossessioni maniacali del diplomatico sadico (il quale sfogava sui giocattoli la sua aggressività e mania distruttiva); le fobie della madre bigotta che fuggiva dalla sessualità morbosa dell’uomo e le frustrazioni ideologiche dei giovani rivoluzionari delusi dagli eventi.


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