La sovrana libertina, prototipo della donna moderna, Cristina di Svezia
Il 1668 aveva sicuramente rappresentato un momento davvero irripetibile per la politica, la mondanità e la cultura romana. Infatti segnò l’ufficialità del debutto nella società italiana della regina Cristina di Svezia, libertina per indole e cuore, mecenate per testa.
Cristina di Svezia era figlia di quel Gustavo Adolfo, eroe della guerra dei Trent’anni, morto a Lützen nel 1632. Rimasta orfana alla tenera età di sei anni era stata educata al suo ruolo di sovrana, per volontà del padre defunto, dal cancelliere Axel Oxenstierna, uno tra i più grandi statisti del ‘600; in quanto la madre Eleonora non era di certo adatta a adempiere a questo oneroso incarico, a causa della sua proverbiale frivolezza e isteria.
L’indole libertina della regina Cristina di Svezia si poteva già presagire in tempi non sospetti, quando ancora adolescente mostrava comportamenti curiosi e fuori dagli schemi.
Era stata, infatti, ragazza ribelle: dormiva poco e studiava in modo compulsivo. Conosceva alla perfezione il latino, il greco e l’ebraico; oltre a quattro lingue moderne, tra cui l’italiano.
Affamata di conoscenza e malata di una sfrenata curiosità, amava intrattenere una fitta e costante corrispondenza con i tutti i notabili più in vista del panorama culturale europeo.
Il suo mecenatismo, certamente di stampo rinascimentale, l’aveva perfino costretta a svuotare le casse dello stato per finanziare progetti faraonici, come ad esempio l’istituzione di Uppsala, la più grande università del Nord.
Non paga di ciò, Cristina di Svezia si era anche imbarcata nella creazione di altri due atenei; uno a Turku in Finlandia e un altro a Tartu in Estonia, in quel tempo suoi possedimenti personali.
Impiantò perfino una casa editrice, preoccupandosi di importare stampatori dall’Olanda. E rivoluzionò,senza alcuna remora, l’intero sistema scolastico, avvalendosi della prestigiosa consulenza di Comenio.
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Ma la libertina sovrana, non contenta dei suoi molteplici successi come instancabile mecenate, cercò di riempire la sua vita e la sua smodata sete di cultura avvicinandosi alla filosofia, mettendosi quindi in relazione con le menti più brillanti del tempo.
Memorabile fu la sua amicizia con il filosofo francese Pascal; il quale, onorato da cotanto interessamento, in segno di gratitudine e di profonda amicizia le mandò in dono una specie di computer ante litteram.
Se da una parte la regina Cristina di Svezia aveva dunque incarnato il punto più alto di un mecenatismo disinteressato e innamorato di un sapere a tutto tondo, dall’altra questa figura aveva anche offerto il ritratto di una donna forte e libera, nel cuore e nella mente.
Una donna moderna, capace di bastare a se stessa, di certo non prigioniera dei diktat al maschile! Un’eroina senza macchia, audace nel dimostrare all’opinione pubblica del suo tempo, che un buon regnante non aveva di certo sesso.
E che dire poi del suo coraggio! Non ebbe paura di mostrare ai suoi sudditi e all’aristocrazia le sue inclinazioni più intime, sapendo di scioccare i benpensanti più integralisti, soprattutto cattolici e protestanti.
Pur privilegiando la compagnia maschile, Cristina di Svezia continuava imperterrita a nutrire una profonda diffidenza e avversione per il loro disinibito approccio e amplesso; tanto è vero che le sue due storie d’amore più importanti furono con donne, una certa Ebba – morta in circostanze misteriose – e il soprano Angelica Giorgini, una bellissima fanciulla che faceva gola ai molti suoi estimatori, in particolar modo all’abate Vanini, un noto e impenitente libertino. E per questa ragione la sovrana svedese decise di vivere questa sua passione rigorosamente a porte chiuse, nell’intimità ovattata del suo palazzo.
Nonostante la sua nomea e la discutibile condotta, Cristina di Svezia era diventata la sola e autentica promessa della vita romana che si plasmava attorno al Palazzo Riario.
Qui aveva fondato un’accademia reale che rappresentò il nucleo originario della famosa Arcadia, di cui lei stessa aveva redatto statuto e regole.
I suoi interessi erano leonardeschi. Come archeologa intraprese degli scavi e ne fu compensata in modo inaspettato dal ritrovamento di una stupenda Venere del primo secolo avanti Cristo. Come collezionista era riuscita a intercettare tele di Tiziano, Rubens e Raffaello.
Adorava Bernini; andava sovente nel suo studio a guardarlo scolpire, ma rifiutò più volte di posare per lui come modella.
La sua passione fondamentale restava però quella del teatro; avrebbe voluto possederne uno, tutto suo, come i Colonna e i Barberini, ma non avendo abbastanza soldi per mantenerlo si accontentò di aiutare il Teatro di Tor di Nona che venne inaugurato nel 1671 con l’opera lirica Scipione l’Africano, dedicata a lei, un grande successo di pubblico e di critica.
Da allora Cristina lo diresse quasi da impresario, scritturando perfino di persona i cantanti e le maestrie che si sarebbero dovute avvicendarsi sul palcoscenico.
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Morì per malattia il 19 aprile del 1689, lontana dalla sua madrepatria, che l’aveva sempre guardata con sospetto, sostenuta dal calore del popolo romano, che ormai la considerava come una di casa.
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