La lingua italiana è davvero morta?
Autore: Marcello CaccialanzaGio, 09/08/2018 - 12:30
La lingua italiana è davvero morta?Secondo molti studiosi della lingua italiana “la morte effettiva” dell’italiano parlato e scritto è avvenuta tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, momento storico in cui si assiste a un clamoroso ed effettivo ribaltamento di valori che in un vortice d’innovazione contestatrice ha messo in discussione le precedenti certezze comportamentali e di costume.
Innanzitutto si è partiti con il non difendere più a spada tratta l’esclusiva dell’italiano come lingua sovrana della comunicazione famigliare e forbita; infatti l’estrema americanizzazione del nostro idioma ha contribuito in un modo alquanto subdolo alla creazione di neologismi che fino a quel momento era davvero inimmaginabile il solo pensarli. E soprattutto la ribellione giovanile di quegli anni di grande fermento, in materia di musica, letteratura e pensiero politico e sociale, ha fatto in modo – secondo molti storici linguistici e di costume – di dare il colpo di grazia alla nobiltà della nostra stressa lingua. È di questo periodo storico anche il fenomeno della sovrapposizione del dialetto alla lingua nazionale, operazione linguistica impensabile fino a quel momento, poiché una certa eleganza di stile e un certo bon ton avevano sempre predicato la netta separazione tra queste due realtà linguistiche: in famiglia era lecito avvalersi del dialetto; mentre in società e soprattutto nella burocrazia l’italiano era di rigore.
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Gli anni Ottanta e Novanta in materia di problematiche relative alla nostra lingua sono stati fervidi dal punto di vista dello studio sul suo stato di salute. Si avverte dunque l’esigenza più concreta di creare una sorta di bilancio ad hoc e un generale ripensamento globale di quanto su questi concetti si era fatto e detto fino ad allora.
L’italiano oramai si era dunque saldamente affermato come mezzo primario di comunicazione e la vena polemica che aveva caratterizzato in modo animoso i dibattiti di venti e trent’anni prima era andata lentamente a scemare, lasciando spazio a toni più pacati e ad analisi sicuramente molto più obiettive. Dopo l’ondata antigrammaticale e antinormativa che aveva caratterizzato gli anni Settanta, si era di nuovo ritornati a discutere delle norme fondanti la nostra stessa lingua, non più da una prospettiva “di una fissità astorica”, bensì dando un forte risalto alle diverse possibilità d’uso e alle molteplici varietà del repertorio linguistico che veniva così descritto nella sua assai incessante evoluzione, ma anche nella sua più totale fedeltà alle strutture fondamentali della lingua… fonetiche, morfologiche e sintattiche.
La stessa Accademia della Crusca sotto la guida di Giovanni Nencioni era tornata a occupare una posizione di primo piano.
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Da una parte si impegnava a riprendere a pieno ritmo i lavori della realizzazione di un nuovo vocabolario; dall’altra si apprestava a promuovere incontri e tavole rotonde sulle sorti dell’Italiano. Da ricordare “La lingua italiana in movimento, Firenze 1982” e “gli Italiani parlati, Firenze 1987”.
Anche il mondo della stessa editoria era in fermento e partecipava a pieno titolo alle molteplici dissertazioni in merito a questa onerosa querelle. Accanto a libri di impostazione puristica che avevano il delicato compito di rassicurare i lettori più disorientati con l’offerta di certezze linguistiche; venivano pubblicati saggi divulgativi di alto livello, nei quali si confrontavano in modo problematico diverse correnti di pensiero.
La lingua italiana è davvero morta?
L’opinione pubblica si era così suddivisa in due grandi schieramenti, quello degli allarmisti da una parte e quello degli ottimistidall’altra. I primi, sicuramente più disfattisti, predicavano a gran voce le catastrofiche teorie dell’imbastardimento dell’italiano, sottoposto suo malgrado alla pressione selvaggia del parlato e della pubblicità ridondante, e al contagio esasperato del continuo e asfissiante uso dei forestierismi. Gli ottimisti, invece, mettevano in evidenza gli straordinari progressi compiuti sul fronte dell’alfabetizzazione e della medesima italianizzazione.
A metà strada, come in ogni contesa che si rispetti, si ponevano quanti giudicavano in modo positivo le trasformazioni in atto, ritenendo inevitabile pagare un certo prezzo – in termini di purezza e di rigore – in cambio della modernizzazione dell’Italiano e dell’allargamento del suo impiego.
In tutto questo marasma di querelle e contro querelle, la questione della lingua, nella forma che stava assumendo in quel nuovo frangente, sembrava ruotare attorno a due domande tra loro correlate che in un certo senso rovesciavano i termini del dibattito di fine Ottocento. Ora che la lingua nazionale si era tanto diffusa e stabilizzata, che cosa ne sarebbe stato dei dialetti? Ora che la stessa si era imposta come lingua della comunicazione colloquiale e familiare, che ne sarebbe dunque stato delle varietà alte, a cui la medesima tradizione era relegata?
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La prima metteva in luce la sopravvivenza del dialetto una volta ottenuta una sorta di stabilizzazione della lingua nazionale. I dialetti, dati tante volte per morti, avevano sempre dimostrato nel corso degli anni un’inaspettata capacità di tenuta, soprattutto in certe aree del Paese, si pensi al Sud Italia e al Triveneto. Inoltre era in atto una specie di bilinguismo; e ciò che forse più contava un reale e forte recupero di prestigio di questa realtà dialettale, che non era più semplicemente nella coscienza di molti parlanti, o un’ingiustificata marca di inferiorità sociale. Molti giornali di provincia avevano rubriche fisse in vernacolo e tante volte le varietà locali erano esaltate in chiave autonomistica come una specie di orgogliosa rivendicazione di identità. Significativa era anche la fioritura della poesia neo-dialettale che aveva a che fare non tanto con i dialetti di antica e consolidata tradizione, quanto piuttosto con un omogeneo insieme di parlate periferiche, come il tursitano di Albino Pierro.
La seconda riguardava il rapporto tra la varietà linguistica colloquiale, familiare e quella più forbita e burocratica. Su questa questione ci fu uno studio preciso, puntuale e scientifico, che notò un certo appiattimento tra la lingua parlata e quella scritta, un appiattimento delle capacità espressive sul registro orale-informale, in quanto si era di fatto ridotta la distanza tra scritto e parlato. Si temeva dunque che le nuove generazioni perdessero la reale capacità di maneggiare i registri alti della lingua e, a differenza che nel passato, la salvaguardia della del registro scritto-formale non era più affidata alla letteratura, ma piuttosto alla scuola e ai giornali, fucina di linguaggi e stili diversi
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Inoltre negli anni Ottanta-Novanta si guardava con crescente interesse anche al linguaggio burocratico, un tipo di italiano scritto col quale si veniva quotidianamente a contatto con le grandi masse di parlanti, compresi quelli meno acculturati e meno motivati alla lettura.
Dopo essere stato per secoli il vero spauracchio dei dibattiti sulla lingua il linguaggio burocratico veniva rivalutato come una delle essenziali forze in gioco nella medesima dialettica linguistica, come il “polo della tradizione opposta alle spinte centrifughe”, in grado di contrastare la proliferazione dei forestierismi mediante l’adozione di termini italiani ufficiali.
Questa nuova politica linguistica, venuta in soccorso del linguaggio burocratico, aveva così creato ad hoc un codice di stile delle comunicazioni scritte a uso delle medesime amministrazioni pubbliche. Da non dimenticare neppure un altro codice fondamentale che veniva affiancato al precedente: il codice di stile, ovvero l’insieme di quelle raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in cui ci si soffermava su disquisizioni intorno allo studio degli accordi tra maschile e femminile; sulle abitudini linguistiche collettive ed infine sul femminile di alcune professioni.
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