Non andartene docile in quella buona notte (Dylan Thomas) Non andartene docile in quella buona notte, i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; infuria, infuria, contro il morire della luce. Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta perché dalle loro parole non diramarono fulmini non se ne vanno docili in quella buona notte. I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia, s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono, troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino, non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire, s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi, benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego. Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce. Il mistero della vita (Rabindranath Tagore) Il mistero della vita penetra nel mistero della morte, il giorno chiassoso tace dinanzi al silenzio delle stelle. Morte, non essere troppo orgogliosa (Johnn Donne) Morte, non essere troppo orgogliosa, se anche qualcuno ti chiama terribile e possente Tu non lo sei affatto: perché quelli che pensi di travolgere in realtà non muoiono, povera morte, né puoi uccidere me. Se dal riposo e dal sonno, che sono tue immagini, deriva molto piacere, molto più dovrebbe derivarne da te, con cui proprio i nostri migliori se ne vanno, per primi, tu che riposi le loro ossa e ne liberi l’anima. Schiava del caso e del destino, di re e disperati, Tu che dimori con guerra e con veleno, con ogni infermità, l’oppio e l’incanto ci fanno dormire ugualmente, e molto meglio del colpo che ci sferri. Perché tanta superbia? Perché tanta superbia? Trascorso un breve sonno, eternamente, resteremo svegli, e la morte non sarà più, sarai Tu a morire. Se dovessi morire (Emily Dickinson) Se io dovessi morire – E tu dovessi vivere – E il tempo gorgogliasse – E il mattino brillasse – E il mezzodì ardesse – Com’è sempre accaduto – Se gli Uccelli costruissero di buonora E le Api si dessero altrettanto da fare – Ci si potrebbe accomiatare a discrezione Dalle imprese di quaggiù! È dolce sapere che i titoli terranno Quando noi con le Margherite giaceremo – Che il Commercio continuerà – E gli Affari voleranno vivaci – Rende la partenza tranquilla E mantiene l’anima serena – Che gentiluomini così brillanti Dirigano la piacevole scena! La vita, è come un dente (Boris Vian) La vita, è come un dente All’inizio non ci si pensa Ci si accontenta di masticare Ma poi ecco che d’improvviso si guasta Fa male, e preoccupati Lo si cura non senza fastidi E per essere veramente guariti, Bisogna strapparla, la vita. La Collina (Edgar Lee Masters) Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Uno trapassò in una febbre, uno fu arso in miniera, uno fu ucciso in rissa, uno morì in prigione, uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari – tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina. Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie, la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felicie? Tutte, tutte, dormono sulla collina. Una morì di un parto illecito, una di amore contrastato, una sotto le mani di un bruto in un bordello, una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale, una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi, ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag – tutt, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. Dove sono zio Isaac e la zia Emily, e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton, e il maggiore Walker che aveva conosciuto uomini venerabili della Rivoluzione? * Tutti, tutti, dormono sulla collina. Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra, e figlie infrante dalla vita, e i loro bimbi orfani, piangenti – tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina. Dov’è quel vecchio suonatore Jones che giocò con la vita per tutti i novant’anni, fronteggiando il nevischio a petto nudo, bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti, né al denaro, né all’amore, né al cielo? Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa, delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary, di ciò che Abe Lincoln disse una volta a Springfield. Annabel Lee (Edgar Allan Poe) Molti e molti anni or sono, in un regno vicino al mare, viveva una fanciulla che potete chiamare col nome di Annabel Lee; aveva quella fanciulla un solo pensiero: amare ed essere amata da me. Io fanciullo, e lei fanciulla, in quel regno vicino al mare: ma ci amavamo d’amore ch’era altro che amore, io e la mia Annabel Lee; di tanto amore i serafini alati del cielo invidiavano lei e me. E proprio per questo, molto molto tempo fa, in quel regno vicino al mare, uscì un gran vento da una nuvola e raggelò la mia bella Annabel Lee; e così giunsero i nobili suoi genitori e la portarono lontano da me, per chiuderla dentro una tomba in quel regno vicino al mare. Gli angeli, molto meno felici di noi, in cielo, invidiavano lei e me: e fu proprio per questo (come sanno tutti in quel regno vicino al mare), che, di notte, un gran vento uscì dalle nubi, raggelò e uccise la mia Annabel Lee. Ma il nostro amore era molto, molto più saldo dell’amore dei più vecchi di noi (e di molti di noi assai più saggi): né gli angeli, in cielo, lassù, né i demoni, là sotto, in fondo al mare mai potranno separare la mia anima dall’anima di Annabel Lee. Mai, infatti, la luna risplende ch’io non sogni la bella Annabel Lee: né mai sorgono le stelle ch’io non veda splendere gli occhi della bella Annabel Lee, e così, per tutta la notte, giaccio a fianco del mio amore: il mio amore, la mia vita, la mia sposa, nella sua tomba, là vicino al mare, nel suo sepolcro, sulla sponda del mare. Epitaffio a un cane (George Gordon Byron) In questo luogo giacciono i resti di una creatura che possedette la bellezza ma non la vanità la forza ma non l’arroganza il coraggio ma non la ferocia E tutte le virtù dell’uomo senza i suoi Vizi. Quest’elogio, che non sarebbe che vuota lusinga sulle ceneri di un uomo, è un omaggio affatto doveroso alla memoria di “Boatswain”, un Cane che naque in terranova nel maggio del 1803 e morì a Newstead Abbey il 18 novembre 1808. Quando un fiero figlio dell’uomo al seno della terra fa ritorno, sconosciuto alla gloria, ma sorretto da nobili natali, lo scultore si prodiga a mostrare il simulacro vuoto del dolore, e urne istoriate ci rammentano l’uomo che giace lì sepolto; e quando ogni cosa si è compiuta sul sepolcro noi potremo leggere non chi fu quell’uomo, ma chi doveva essere. Ma il misero cane, l’amico più caro in vita, che per primo saluta e che difende ultimo, il cui bel cuore appartiene al suo padrone, che lotta, respira, vive e fatica per lui solo, cade senza onori; e solo col silenzio è premiato il suo valore; e l’anima che fu sua su questa terra gli vien negata in cielo; mentre l’uomo, insetto vano! spera il perdono,e per sé solo pretende un paradiso intero. O uomo! flebile inquilino della terra per un’ora, abietto in servitù, corrotto dal potere, ti fugge con disgusto chi ti conosce bene, o vile massa di polvere animata! L’amore in te è lussuria, l’amicizia truffa, la parola inganno, il sorriso menzogna! Vile per natura, nobile sol di nome, ogni animale ti mette alla vergogna. O tu, che per caso guardi quest’umile sepolcro, passa e va’ : non è in onore di creatura degna del tuo pianto. Esso fu innalzato per segnare il luogo ove tutto quel che di un amico resta riposa in pace; un sol ne conobbi: e qui si giace. E la morte non avrà più dominio (Dylan Thomas) E la morte non avrà più dominio. I morti nudi saranno una cosa Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente; Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse, Ai gomiti e ai piedi avranno stelle; Benché ammattiscano saranno sani di mente, Benché sprofondino in mare risaliranno a galla, Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo; E la morte non avrà più dominio. E la morte non avrà più dominio. Sotto i meandri del mare Giacendo a lungo non moriranno nel vento; Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono, Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno; Si spaccherà la fede in quelle mani E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte; Scheggiati da ogni lato non si schianteranno; E la morte non avrà più dominio. E la morte non avrà più dominio. Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi, Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare; Dove un fiore spuntò non potrà un fiore Mai più sfidare i colpi della pioggia; Ma benché matti e morti stecchiti, Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite; Irromperanno al sole fino e che il sole precipiterà, E la morte non avrà più dominio. Poiché non potevo fermarmi per la morte (Emily Dickinson) Poiché non potevo fermarm per la morte – Lei gentilmente si fermò per me – La carrozza non portava che noi due – E l’Immortalità – Procedemmo lentamente – non aveva fretta Ed io avevo messo via Il mio lavoro e il mio tempo libero anche, Per la Sua Cortesia – Oltrepassammo la scuola, dove i bambini si battevano Nell’intervallo – in cerchio – Oltrepassammo campi di grano che ci fissava – Oltrepassammo il sole calante – O piuttosto – lui oltrepassò noi – La rugiada si posò rabbrividente e gelida – Perché solo di garza, la mia veste – La mia stola – solo tulle – Sostammo davanti a una casa che sembrava Un rigonfiamento del terreno – Il tetto era a malapena visibile – Il cornicione – nel terreno – Da allora – sono Secoli – eppure Li avverto più brevi del giorno In cui da subito intuii che le teste dei cavalli Andavano verso l’eternità. Chi è amato non conosce morte (Emily Dickinson) Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina. Chi ama non conosce morte, perché l’amore fa rinascere la vita nella divinità. La Morte (Kahlil Gibran) Ora vorremmo chiederti della Morte. E lui disse: Voi vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita? Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce. Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita, poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare. Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita; e come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera. Confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell’eternità. La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore. In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l’impronta regale? E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito? Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole? E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio? Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare. E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire. E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente. Ora la voce tua disparirà (Sandro Penna) Ora la voce tua disparirà. E domani cadrà anche il tuo fiore. E nulla più verrà. Forse la vita si spegne in un falò d’astri in amore. Non vorrei crepare (Boris Vian) Non vorrei crepare Prima d’aver conosciuto I cani neri del Messico Che dormono senza sognare Le scimmie a culo nudo Divoratrici dei tropici I ragni d’argento Dal nido pieno di bolle Non vorrei crepare Senza sapere se la luna Sotto la sua falsa aria di moneta Ha un lato appuntito Se il sole è freddo Se le quattro stagioni Sono davvero quattro Senza aver provato A portare un vestito Lungo i grandi viali Senza aver guardato Dentro a un tombino Senza aver ficcato il cazzo Nei posti più impensati Non vorrei crepare Senza conoscere la lebbra O le sette malattie Che si prendono laggiù Il bene e il male Non mi farebbero penare Se sapessi Che ne avrò la strenna E c’è anche Tutto ciò che conosco Tutto ciò che apprezzo E che so che mi piace Il fondo verde del mare Dove le alghe ballano il valzer Sulla sabbia ondulata L’erba bruciata di giugno La terra che si screpola L’odore delle conifere E i baci di colei Che questo che quello La bella ecco Il mio Orsetto, Orsola Non vorrei crepare Prima d’aver consumato La sua bocca con la mia bocca Il suo corpo con le mie mani Il resto coi miei occhi Non dico altro bisogna pur Mantenersi riverenti Non vorrei crepare Prima che abbiano inventato Le rose eterne La giornata di due ore Il mare in montagna La montagna al mare La fine del dolore I giornali a colori Tutti i bambini contenti E tante cose ancora Che dormono nei crani Di geniali ingegneri Di allegri giardinieri Di socievoli socialisti Di urbani urbanisti E di pensatori pensierosi Tante cose da vedere Da vedere e da sentire Tanto tempo d’attendere A cercare nel nero E io vedo la fine Che brulica e che s’avvicina Con la sua gola ripugnante E che m’apre le braccia Di ranocchia brancicante Non vorrei crepare Nossignore nossignora Prima d’aver provato Il gusto che mi tormenta Il gusto più forte Non vorrei crepare Prima di aver gustato Il sapore della morte… Pacificazione primaverile (Fëdor Ivanovič Tjutčev) Oh non mettetemi nella terra umida! Nascondetemi, seppellitemi Nella folta erba! Che il respiro del vento Faccia ondeggiare l’erba, Che di lontano un flauto canti, Che luminose e placide le nubi Fluttuino sopra di me! Cade una foglia (Grazia Deledda) Cade una foglia che pare tinta di sole, che nel cadere ha l’iridescenza di una farfalla; ma appena giunta a terra si confonde con l’ombra, già morta. La rosa morente (Arturo Graf) Entro una vaga, iridescente fiala Di gemmato cristal, nella pomposa Patrizia sala, una vermiglia rosa L’odorante e sottil spirito esala. Tutta di specchi e d’ori e di fastosa Seta risplende intorno a lei la sala, Mentre un raggio di sol che d’alto cala Sul dipinto tappeto arde e riposa. Ma la stremata rosa, a cui del sole Che già la tinse ornai si spegne il raggio, Quel vano lustro e quella pompa ignora. E moribonda le incomposte ajuole, E i pruni del paterno orto selvaggio, E il cespuglio natio sogna ed implora. Chi è amato non conosce morte (Emily Dickinson) Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina. Chi ama non conosce morte, perché l’amore fa rinascere la vita nella divinità. La morte non è niente (Henry Scott Holland) La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace. ‘A livella (Totò) Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza Per i defunti andare al Cimitero Ognuno ll’adda fà chesta crianza Ognuno adda tené chistu penziero Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno Di questa triste e mesta ricorrenza Anch’io ci vado, e con dei fiori adorno Il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza St’anno m’é capitato ‘navventura Dopo di aver compiuto il triste omaggio Madonna, si ce penzo, e che paura! Ma po’ facette un’anema e curaggio ‘O fatto è chisto, statemi a sentire S’avvicinava ll’ora d’à chiusura Io, tomo tomo, stavo per uscire Buttando un occhio a qualche sepoltura “Qui dorme in pace il nobile marchese Signore di Rovigo e di Belluno Ardimentoso eroe di mille imprese Morto l’11 maggio del’31” ‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto Sotto ‘na croce fatta ‘e lampadine Tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto Cannele, cannelotte e sei lumine Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore Nce stava ‘n ‘ata tomba piccerella Abbandunata, senza manco un fiore Pe’ segno, sulamente ‘na crucella E ncoppa ‘a croce appena se liggeva: “Esposito Gennaro – netturbino” Guardannola, che ppena me faceva Stu muorto senza manco nu lumino Questa è la vita! ‘ncapo a me penzavo Chi ha avuto tanto e chi nun ave niente Stu povero maronna s’aspettava Ca pur all’atu munno era pezzente? Mentre fantasticavo stu penziero S’era ggià fatta quase mezanotte E i’rimanette ‘nchiuso priggiuniero Muorto ‘e paura… nnanze ‘e cannelotte Tutto a ‘nu tratto, che veco ‘a luntano? Ddoje ombre avvicenarse ‘a parte mia Penzaje: stu fatto a me mme pare strano Stongo scetato… dormo, o è fantasia? Ate che fantasia; era ‘o Marchese C’o’ tubbo, ‘a caramella e c’o’ pastrano Chill’ato apriesso a isso un brutto arnese Tutto fetente e cu ‘nascopa mmano E chillo certamente è don Gennaro ‘Omuorto puveriello’ o scupatore ‘Int ‘a stu fatto i’ nun ce veco chiaro So’ muorte e se ritirano a chest’ora? Putevano sta’ ‘a me quase ‘nu palmo Quanno ‘o Marchese se fermaje ‘e botto S’avota e tomo, tomo, calmo, calmo Dicette a don Gennaro: “Giovanotto!” Da Voi vorrei saper, vile carogna Con quale ardire e come avete osato Di farvi seppellir, per mia vergogna Accanto a me che sono blasonato! La casta è casta e va, si, rispettata, Ma Voi perdeste il senso e la misura La Vostra salma andava, si, inumata Ma seppellita nella spazzatura Ancora oltre sopportar non posso La Vostra vicinanza puzzolente Fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso Tra i vostri pari, tra la vostra gente “Signor Marchese, nun è colpa mia I’nun v’avesse fatto chistu tuorto Mia moglie è stata a ffa’ sta fesseria I’ che putevo fa’ si ero muorto? Si fosse vivo ve farrei cuntento Pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse E proprio mo, obbj’…’nd’a stu mumento Mme ne trasesse dinto a n’ata fossa” “E cosa aspetti, oh turpe malcreato Che l’ira mia raggiunga l’eccedenza? Se io non fossi stato un titolato Avrei già dato piglio alla violenza!” “Famme vedé.-piglia sta violenza ‘A verità, Marché, mme so’ scucciato ‘E te senti; e si perdo ‘a pacienza Mme scordo ca so’ muorto e so mazzate! Ma chi te cride d’essere, nu ddio? Ccà dinto, ‘o vvuo capi, ca simmo eguale? Muorto si’tu e muorto so’ pur’io; Ognuno comme a ‘na’ato é tale e quale” “Lurido porco! Come ti permetti Paragonarti a me ch’ebbi natali Illustri, nobilissimi e perfetti Da fare invidia a Principi Reali?” “Tu qua’ Natale, Pasca e Ppifania T”o vvuo’ mettere ‘ncapo’ int’a cervella Che staje malato ancora è fantasia? ‘A morte ‘o ssaje ched”e? è una livella. ‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo Trasenno stu canciello ha fatt’o punto C’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme Tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto? Perciò, stamme a ssenti, nun fa”o restivo Suppuorteme vicino-che te ‘mporta? Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”

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