ROMANZO BREVE :
SEMPLICEMENTE TUTTO IN UNA NOTTE
DI LOWE
VON ADLER
DEDICA
Ognuno ha il suo piccolo Paradiso …
Capitolo Primo
La leggera
frescura di quel diciannove Marzo regalava in quella notte strana e malinconica
un non so che di misterioso ed impalpabile nell’aria; come se una forza
sovraumana stesse respirando sopra a quella piccola realtà di provincia. Una
piccola cittadina in balia dei suoi ritmi blandi e delle sue storie di
ordinaria follia; dove ogni innocuo accadimento diventava grosso come un
elefante.
Una luce
improvvisa si accese fioca nella piccola cucina stile tirolese in quella
villetta d’angolo che, insieme ad altre costruzioni gemelle, andava creando il
villaggio residenziale - conosciuto dai più - con il nome di villaggio “la
Valle dei Pini”. Un palcoscenico variopinto, in cui si esibivano, come le più
simpatiche scimmiette ammaestrate, pessimi uomini che si credevano grandi
attori!
Questo non era
altro che un piccolo mondo antico, fatto di perversioni e di molte ipocrisie;
una realtà di una periferia avvelenata, dove il pedigree era ancora d’obbligo;
o per meglio dire non era mai passato di moda!
Qui vi era un gran
via vai di gente, bella gente, per carità: al mattino ti sorrideva beata e
gioconda; mentre alla sera, nascondendo il pugnale nella tasca, ti tradiva
annientandoti con un fendente.
Nessuno, volesse
il cielo, interagiva con nessuno, in pratica uno sventurato qualsiasi poteva
chiedere aiuto, con la certezza che nessuna mano tesa lo avrebbe preso per
evitargli una imbarazzante caduta nel baratro.
… Niente emozioni da condividere – per carità-
, solamente dei freddi e stentati saluti a denti stretti!
Eppure in quella
villetta giallo paglierino qualcosa di inaspettato stava di lì a poco per
accadere. Era come se in quella freddezza generale si stesse per vivere un coup
de théatre alla moda della più pregevole commedia umana firmata Balzac.
Ma chi era poi
lo sfortunato di turno pronto a diventare l’inconsapevole attore di quella
sciarada voluta dal destino? La sorte beffarda aveva dunque puntato il dito
contro il povero Alessio Pangalli.
Alessio
possedeva quella prestanza fisica e quel particolare non so che, capace di
intrigare la preda del giorno; anche se la sua proverbiale timidezza verso
l’altro sesso lo faceva balbettare in modo assai imbarazzante.
Fino ad un anno
prima il Pangalli aveva lavorato come super manager in una prestigiosa azienda
di videogiochi, dove aveva ideato e firmato progetti che avevano avuto una
grande eco e dei riconoscimenti assai importanti dalla stessa opinione
pubblica.
Ma purtroppo ogni bella favola che si rispetti
ha sempre un momento in cui si deve decretare per causa forza maggiore una
doverosa fine. E anche Alessio non poteva fare altro che rispettare questa
prassi! Così quando la sua vena creativa aveva purtroppo cominciato a fare le
bizze e sulla sua strada si era affacciato –come perfido sciacallo- il giovane
ventenne voglioso e rampante, nipote di
una potente eminenza grigia; lui venne gentilmente messo alla porta con
un sorriso e con un calcio nel sedere!
E allora a quel
punto della sua vita il buon giovane si era visto costretto a reinventarsi del
tutto. Stanco di quella intelligenza artificiale che con lui era stata
matrigna, silenziosamente un po’ bastarda e poco riconoscente; aveva finalmente
deciso di voltare completamente pagina, ignorando studi, sogni e soprattutto
conto in banca.
Ma che cosa
poteva dunque inventarsi il Pangalli per non soccombere del tutto alla noia e
alla pigrizia e resistere così agli urti della vita?
Facendo i conti
con i suoi ricordi, memorie di un’infanzia targata “quella casa nella
prateria”, dove ogni cosa profumava di zucchero filato; colse la palla al balzo
e rispolverò la sua antica passione per il verde e la botanica.
Dai cinque
anni in poi, infatti, durante quelle
interminabili estati afose di una Val Padana vestita di sole e di azzurro, il
piccolo Alessio affiancava nonno Ermenegildo nel giardino e nell’orto di quella
piccola casetta bianca dal tetto rosso.
Quindi a questo
punto il dado era tratto! Lui avrebbe appeso al chiodo il mouse e abbracciato
con ardore la zappa … del resto lui boomer fiero ed orgoglioso era cresciuto al
ritmo di “ voglio andare a vivere in campagna” di Toto Cutugno.
Per il nostro
amico Pangalli non fu certamente difficile avviare la sua nuova attività; in
quanto sapeva benissimo che se fosse andato a perorare la sua causa dalla
vecchia Ernestina, la moglie del Peppe … il boss indiscusso del villaggio
residenziale “la Valle dei Pini”, tutto sarebbe decollato con uno schiocco di
dita. E così fu! Abbandonati i panni del manager rampante; era pronto a
presentarsi al mondo come giardiniere tutto fare.
Naturalmente la
prima a beneficiare dei servizi di Alessio – neanche a farlo apposta- fu
proprio la stessa Ernestina, fedele al motto “ provare per credere”. E quella
esperienza fu per la donna talmente piacevole, per leggerezza e divertimento,
che sdoganò a tal punto il lavoro del giovane da farlo diventare l’idolo
indiscusso dell’intera popolazione femminile di quel piccolo villaggio urbano.
Non c’era signora al “Villaggio dei Pini” che non avesse avuto occasione di
gioioso intrallazzo con il Pangalli.
Del resto fu proprio
lei, l’intrepida Ernestina, che nel vederlo a torso nudo cominciò ad intonare,
come una pazza scatenata e per prima, la canzone “brividi”. Ed era stata ancora
lei a paragonarlo a quel Big Jim con cui suo fratello Giannino amava giocare da
piccolo. A quella simpatica vecchietta, tutta pepe, la presenza del giardiniere
gigolò le dava l’assurda sensazione di trovarsi in una puntata della sua serie
televisiva preferita “ desperate housewive “.
Ma torniamo a
quel diciannove marzo, in quella villetta d’angolo, in cui un ragazzo qualunque
stava vivendo i postumi di una strana notte, dove menzogna e verità andavano
cavalcando la stessa onda malsana. Era come se un gran carnevale di pensieri
disarmonici venisse all’improvviso a galla e catapultasse l’ignaro Alessio in
un inferno senza fine. Del resto lui stesso si era trovato imbrigliato in una
ragnatela di situazioni senza capo e senza coda.
Quel giorno
aveva festeggiato con quei pochi amici, che contava sulle dita di una mano, il
giro di boa dei suoi primi cinquant’anni. Una festa sciatta, priva di brio,
costruita a tavolino per dargli la sensazione di una felicità di facciata. Una
serata che assomigliava sempre più ad una farsa colossale e che gli faceva
venire voglia di mettersi due dita in gola e di vomitare tutti i suoi primi
cinquant’anni!
Aveva bevuto,
sorriso e stretto mani di gente che, alla resa dei conti della sua vita
incasinata, non era altro che una pietosa zavorra di ipocrisia all’ennesima
potenza da debellare ad ogni costo.
E adesso, nel
momento in cui quell’insulso ballo in maschera era finalmente giunto al
termine, si sentiva solo e triste più che mai e quelle quattro mura –
guadagnate col sudore sul campo- non gli sembravano altro che una grigia
prigione da cui era davvero impossibile evadere.
Il Pangalli era
distrutto; sembrava quasi fluttuasse in un vortice di non senso,
un’allucinazione non prevista che lo invitava a porsi domande su domande; le
cui risposte purtroppo restavano solamente una grande incognita tutta da
decifrare!
Aveva sempre sognato
una vita diversa, fatta di musica e di armonie , nella quale avesse finalmente
l’opportunità di arricchire di note il suo quaderno pentagrammato; eppure la
vita lo aveva sempre portato a scelte che in fin dei conti non facevano altro
che prendere a cazzotti la sua stessa essenza. Diciamocela tutta Alessio era
stato sempre il killer di se stesso!
Ma adesso era
stanco, veramente stanco; perché aveva ben compreso che qualcosa si era rotto
definitivamente dentro di lui. Aveva recitato un’insulsa commedia che gli
andava stretta e l’aveva recitata per darsi quel tono che avesse appeal in quel
circo a tre piste dove lui era il clown.
Era diventato
dal giorno alla notte il peggior nemico di se stesso, non si sopportava più e
tanto meno non poteva di certo amarsi. Dietro di lui non aveva che lasciato una
scia di fallimenti … di cose iniziate e mai portate a termine , forse per
paura, o per pigrizia o semplicemente
per arroganza.
Il suo
atteggiamento, a volte intollerante e dispotico, aveva distrutto quelle persone
che alla fine avevano avuto la sola colpa di amarlo veramente.
Oramai si era
reso conto di aver smarrito la strada maestra e si era ritrovato e adagiato
nella convinzione di essersi impantanato in una realtà surreale; in cui le sue
colpe e i suoi fantasmi più neri lo stavano divorando lentamente attimo dopo
attimo.
Nella sua vita
non aveva mai pianto, perché gli era stato insegnato che era cosa buona e
giusta gestire il proprio pudore e le proprie fragilità in modo autonomo e
riservato. Nessuno mai lo avrebbe dovuto vedere ferito e fermo all’angolo!
Eppure in quella
giornata particolare tutte le sue certezze si stavano sciogliendo come neve al
sole : aveva sicuramente perso lucidità e si era accorto, suo malgrado, che la
sua stessa vita non aveva più alcun
mordente, era come una canzone dal buon potenziale, ma eseguita in modo
stonato.
Girava e
rigirava in quel piccolo salotto alla medesima stregua di quella belva ferita a
tradimento e neanche lui capiva fino in fondo il vero motivo di quell’immensa
irrequietezza. Ma poi il suo sguardo – senza un vero perché – lo accompagnò in
direzione di un comò dal sapore antico, un ricordo di famiglia.
E qui tra le
cianfrusaglie di una vita spuntava una piccola cornice d’argento che custodiva
in silenzio il suo fallimento più grande: l’ombra di un padre che forse non
aveva mai imparato a conoscere, forse per pregiudizio o per inadeguatezza.
“Quanto è
bastarda la vita! Nasci il 19 marzo e poi ti scopri irrisolto nei confronti del
tuo stesso padre!” … pensava Alessio tra sé e sé. Difatti quella con il suo
genitore era una sorta di battaglia invisibile che si andava silenziosamente
ancora combattendo oggi dopo mesi dalla sua scomparsa.
Il rammarico di
non avere vissuto fino in fondo quel rapporto ancestrale e di aver costruito un
muro fatto di comportamenti circostanziali e di sospetti atroci era tale che il
Pangalli per la prima volta aveva voglia di piangere. Non aveva pianto quando per
dieci anni lo aveva visto consumarsi giorno dopo giorno, come una candela
solitaria su quel davanzale triste e spoglio, con la consapevolezza di essere
diventato un peso per la parte sana della famiglia. Non aveva pianto alla
cerimonia funebre, perché aveva vissuto il tutto come una situazione irreale,
una situazione fuori di sé.
Ma quella sera –
al giro di boa dei cinquant’anni- aveva deciso di lasciarsi andare e di dire
basta a quella maledetta reticenza che lo aveva indotto ad un comportamento
freddo, delle volte cinico, ma soprattutto affettato.
Quante maschere
il buon Alessio aveva dovuto indossare per sopravvivere al cosiddetto contratto
sociale; subdoli accorgimenti per non soccombere e navigare a vista!
Tutti quei
pensieri così prepotenti e vagamente ruffiani si affollavano con veemenza in
quella testa, ormai confusa dalla situazione, col risultato che gli stessi avevano così creato una specie di ragnatela
di fili metallici, capace di ingabbiare il suo cuore rancoroso.
E allora per non
affondare del tutto, sentiva il bisogno di annullarsi nell’ennesima sigaretta,
magari accompagnata da quel liquore al caffè.
Intanto dalla
villetta vicina giungeva inattesa “ People are strange” dei Doors; e subito
Alessio ebbe l’istinto di cantarla a squarciagola, come se quella stessa
melodia fosse una poderosa droga a cui fosse assai difficile resistere.
Quella canzone
era per quel giovane uomo un déjà vu; l’occasione ghiotta per ricordare quel
liceo linguistico, dove aveva speso gli anni più belli e meno incasinati di una
vita ancora acerba di un brufoloso ragazzino alle prese con i suoi primi
pruriti.
Non era stato un
periodo del tutto idilliaco; ma almeno si poteva affermare di aver vissuto
nella leggerezza e nella piena libertà di essere ancora predisposti al lusso di
sognare; perché tutto ciò non costava niente e si poteva davvero ancora credere
di cambiare il mondo!
E qui in questa
oasi felice aveva conosciuto Rebecca, una persona meravigliosa che se ne era
andata troppo presto, non era riuscita a sconfiggere quella malattia canaglia e
il destino impietoso l’aveva chiamata a sé.
Rebecca era quel
fiore raro che lo si trovava in quel giardino d’inverno, dove si andava lieti
per respirare la vita. Era quel fiore raro dai colori sgargianti, il cui
profumo ti inebriava e la cui bellezza ti ubriacava.
Era gioiosamente naif e mai banale, talmente
fuori da ogni schema prestabilito, da risultare un essere quasi sprecato per le
brutture di quel tempo rarefatto, per la cattiveria di quel mondo infame.
Ad Alessio –
personaggio decisamente sopra le righe- quanto piaceva l’originalità di
Rebecca! Proprio lui che, per indole e per modo di porsi d’innanzi alla realtà
del quotidiano, aveva sempre avuto un occhio di riguardo per la diversità sana
e fruttuosa, piuttosto che svendersi- come una puttana qualunque- alla più
squallida omologazione di pensiero e di azione.
E la ragazzina
era così ingenuamente pulita e bella dentro nel suo modo di presentarsi … che
chiunque avesse il privilegio di incrociare, anche per un solo istante il suo
sguardo; ne rimaneva inspiegabilmente travolto, quasi ipnotizzato da quel
carisma, che ti metteva ko in un angolo.
Il Pangalli era
solito definirla come un “ mostro sacro “, una meravigliosa rarità, tutta da
applaudire e tutta da venerare. La vedeva come quell’artista un po’ folle,
dall’anima incompresa, che amava i giochi di chiaro-scuro, in barba ai colori e
alla prospettiva.
Rebecca aveva
questo suo strano modo di fare, così inaspettatamente frastornato e
frastornante, che le conferiva un’aria quasi di mistero, che, nonostante tutto,
sapeva conquistare, regalando una simpatica empatia che lo faceva sentire al
centro di un mondo nuovo, che solleticava la sua parte migliore.
Era una
meravigliosa sorpresa che si rinnovava di giorno in giorno come la scabrosa
promessa di due eterni innamorati, pronti a camminare mano nella mano alla
conquista di un posto al sole.
La musica e le
parole dei Doors continuavano ad impazzare in quel piccolo salottino e Alessio
era sempre più avvinto dall’interminabile fluttuare di quella prepotente massa
di ricordi soffocanti, che lo facevano sentire come “lo scarafaggio” di Kafka,
sempre sul chi va là … per paura di essere calpestato.
Che bello lasciarsi trasportare da quel suo
sguardo malinconico!
Che favola lasciarsi sedurre da quegli occhi
blu mare di un’ eroina romantica alla ricerca di evanescenti attimi tutti da
scrivere!
Era come se
l’uomo andasse respirando una nuova ventata di aria fresca in quella notte in
cui ipocrisia e falsità la facevano da
padrone con grande prepotenza. E il solo fatto di pensare alla figura di
Rebecca sembrava ridargli una giusta dimensione e una giusta dignità.
Del resto quanti
avevano avuto l’onore o la fortuna di vivere fino in fondo la dolcezza di quella giovane donna, non
potevano che tranquillamente affermare di essere rimasti colpiti da quella sua
disarmante tenerezza che, alla fine, non conduceva altro che ad una specie di
paradosso tutto da scoprire!
Infatti la sua
timidezza e la sua discrezione facevano ancora rima con parole come educazione
e rispetto, termini con cui il buon Alessio andava ancora d’accordo , nel
famigerato terzo millennio; sebbene
tutto ciò risultasse del tutto obsoleto
e suonasse come una colpa o come un marchio di stupidità!
Ma Rebecca senza saperlo era diventata per il
Pangalli un bellissimo souvenir, un chiodo fisso … lei dunque incarnava quella diva della porta
accanto, tutta acqua e sapone, magari un po’ persa nei suoi ragionamenti, ma
sempre romanticamente vera. E per questa ragione l’uomo si sentiva in obbligo
di donarle come pegno di fedeltà assoluta due righe di poesia da lui concepite:
A te anima bella
In silenzio
Ti sei dissolta
Creando quella stella
Che illumina
I miei passi …
Ti lascio questo bacio
Che sa
Di malinconia
La musica era
andata scemando e in quella piccola stanza si ritornò a respirare uno strano ed
impalpabile silenzio, del resto il “Vaso di Pandora” era stato scoperchiato e
certamente non si poteva tornare indietro:nulla era più come prima.
Alessio senza
accorgersene aveva scomodato quei mille e mille fantasmi che era riuscito
miracolosamente fino a quel momento ad assopire e relegare nell’androne più
oscuro della sua anima. Insomma, con un perfetto gioco da equilibrista
consumato, aveva avuto la forza di domare i suoi demoni, le sue paure e ogni
sua fobia, rendendo il tutto come legittime alterazioni di un carattere in
divenire.
Ma ormai la
misura era veramente colma! Il Pangalli non ce la faceva davvero più a
sopportare tutta quella melma di insoddisfazioni e di pesantezza esistenziale che
andava a minare la sua integrità psichica. Si sentiva oppresso come
quell’antico vulcano in procinto di eruttare da un momento all’ altro!
Aveva appena
compiuto cinquant’anni eppure dentro non si sentiva a posto con se stesso;
forse perché non aveva ancora accanto quella persona ad hoc in grado di
addomesticare la sua incapacità di codificare le regole basilari
dell’educazione sentimentale. Come poteva amare un’altra persona dal momento
che odiava se stesso? Da molto tempo lui aveva ben compreso che tutti quei
fantomatici nemici che, secondo sua sensibilità andavano affollando i suoi
pensieri, non erano altro che dei mulini a vento; il vero suo nemico era uno
solo, lui stesso, vestito di tutte quelle sue farneticazioni e contraddizioni
che lo facevano sopravvivere alla vita stessa.
Alessio si
ricordò di aver lasciato nel cruscotto della sua utilitaria un pacchetto dalla
carta dorata con il fiocco bianco, l’unico regalo che aveva ricevuto in quella
giornata così bizzarra. Lo andò subito a prendere nel garage condominiale e con
fare quasi seccato lo lanciò sul tavolino di cristallo.
Continuava a
guardare quel pendolo di legno antico, ma quelle maledette ore non volevano
trascorrere; era come se il tempo stesso
aveva congiurato contro di lui e contro la sua insaziabile malinconia.
E allora aveva
deciso di punirsi, come solo lui sapeva fare, quando si prefiggeva una sorta di
pianto liberatorio, in grado di
trasformare tutte quelle amarezze in ritrovati momenti di piacevole serenità.
Così andava
davanti a quella grande scaffalatura di metallo verde acqua, che si trovava nel
corridoio della notte … e a colpo sicuro prendeva dal ripiano più alto la
videocassetta del film “A Walk to Remember” .
Dopo avere
indossato il pigiama ed essersi tolto di dosso i vestiti e il fetore della
giornata appena trascorsa, si sedeva su quel divano di pelle sfatta in
compagnia di Landon Carter e Jamie Sullivan, sicuro che quegli eroi di
celluloide gli avrebbero placato prima o poi quella sua inspiegabile
insoddisfazione, ricongiungendolo di fatto a
quel suo piccolo mondo ideale.
Ma quel
maldestro tentativo di fuggire vigliaccamente quella sua condizione di
sudditanza nei confronti di un malessere interiore era risultato alquanto
banale e del tutto inutile; perché ad un certo punto di quella sua patetica
operazione di “reset” generale … il suo sguardo aveva incrociato, per sbaglio,
la fotografia impolverata di un piccolo e sorridente Alessio, “vestito” di una
nauseante giocosità, momenti pallidi di una felicità lontana!
In una cornice
sgangherata, scollata dal tempo, trionfava il ritratto sbiadito di quel piccolo
bimbo, retaggio degli anni settanta; periodo storico complesso e di
contestazione, dove tutto era il contrario di tutto. E più precisamente lui venne alla luce,
rompendo ogni indugio ben sedici giorni prima dell’ora x alle cinque e trenta
del mattino, in quel giovedì, nove Agosto del millenovecentosettantatre; giorno
in cui per la quattordicesima volta i Russi avevano deciso di lanciare una
sonda verso Marte. Era l’ anno in cui
nella politica all’amatriciana l’inaffondabile “Balena Bianca” la faceva da
padrone nascondendo le chiavi di Palazzo Chigi sotto la mattonella. A quel
tempo,infatti,era di gran moda ballare come pazzi quel tango a due targato Andreotti/ Rumor. Mentre al Colle si
respirava aria di Savana; peccato solo che di lì a poco “sua Maestà” avrebbe
abdicato, infangato nel suo onore! E a
San Remo- puntuale come le tasse- il buon Peppino … quel sognatore, orgoglio
caprese, dopo aver sbronzato la povera Roberta con champagne, da gran paravento
la stendeva con “Un grande amore e niente più”, vincendo la kermesse di
quell’anno. Completavano quel podio, al secondo posto, per par condicio, un
altro Peppino, tale Gagliardi, - sfido chiunque a ricordarsi una sua canzone!-
Mentre al terzo
girava bene all’inconfondibile voce di
Milva, che finalmente usciva dalla Filanda; gridando a tutti : “Belli Ciao!”.
Anche se nell’immaginario collettivo,
Alessio in primis, restavano nella storia di
quel millenovecentosettantatre melodie irripetibili come: “ l’uomo che giocava
il cielo a dadi”, lo struggente capolavoro di un ispirato Professore milanese
… dedicata al padre giocatore d’azzardo
e una allucinata e sgangherata “sugli sugli bane bane” delle divertenti Figlie
del Vento; che tra carciofi, lattai … benedivano chi aveva inventato l’amore.
E per la prima volta, miracolo inaspettato e
inaudito nel Bel Paese, una Sufraggetta Bionda, fregando sul tempo Fatine e
dirigibili – Gabriella Farinon in nome
della precisione- presentava da sola, senza il benestare maschile, quella
competizione canora.
Anche se l’ultima sera, quella trasmessa in
diretta sul primo canale,ovvero la serata number one, per non smentirsi, ci si
affidava di nuovo anche al buon vecchio e caro Michele che munifico di squilli
di tromba e gaffes presunte o meno, rappresentava certamente l’usato sicuro e
non traumatizzava la tradizione più conservatrice, quella che vedeva nella
donna una sorta di “geisha” o “di romantica crocerossina” … insomma l’Angelo
del Focolare.
Mentre sui campi di calcio si laureavano
campioni d’Italia gli Aquilotti, peccato che a quei tempi la Falchi avesse solo
un anno; altrimenti via al samba!
Intanto
Hollywood – nella sua megalomania generale- incoronava come miglior film “il
Padrino” di Coppola.
Una Liza Minelli, stranamente sobria, si
aggiudicava la statuetta per la sua memorabile interpretazione in “ Cabaret” …
Ma la cosa più strana di quella edizione era
che la stessa opinione pubblica rimaneva assai basita dal rifiuto plateale
della statuetta da parte di Marlon Brando,uno degli interpreti maschili del
“Padrino”. Si diceva che tale gesto fosse stato compiuto in difesa degli Indiani d’America e delle
loro precarie condizioni di vita.
Quel
millenovecentosettantatre per Venezia fu letale; in quanto non poteva di certo
rispondere a tono allo strapotere dello “Zio Sam”, poiché le gravi
contestazioni degli anni settanta avevano così preso il sopravvento da
cancellare l’evento stesso e da conservarlo per momenti migliori.
Situazione che
non accadeva di certo in città come Berlino o Cannes.
Difatti nella
città del Muro, l’ Italia partecipava con due pellicole, “Malizia” di Samperi,
la volta buona di Laura Antonelli, che, grazie a quella sua interpretazione, ottenne
la sua consacrazione, decretata dal pubblico e dalla critica; e “La proprietà
non è più un furto” di Petri, tra i suoi interpreti: Flavio Bucci, lo
strepitoso Ligabue in uno sceneggiato Rai; Ugo Tognazzi e Gigi Proietti.
A Cannes,
invece, il Cinema del Bel Paese si presentò con più titoli: da “Bisturi – La
Mafia Bianca- diretto da Luigi Zampa; “ Vogliamo i Colonnelli” di Mario
Monicelli all’ “Amleto di meno” regia di
Carmelo Bene.
Anche se il vero
scandalo fu il film “La Grande Abbuffata” di Ferreri, con Tognazzi,
Mastroianni, Noiret e Piccoli; fischiato e censurato, perché considerato rozzo,
volgare e veicolante al sesso più blasfemo ed offensivo.
Insomma aveva
saputo creare un gran scompiglio tra il pubblico più “incravattato” e la
critica più conservatrice e meno propensa ad un umorismo di grana grossa.
Se Ferreri era
“il Lupo cattivo”, un alquanto giovane Giancarlo Giannini, dopo la leggerezza
del musicarello anni sessanta con Marisa Sannia, Rocky Roberts e Lola Falana;
convinceva la giuria, aggiudicandosi a mani basse la palma per il miglior
interprete maschile, grazie alla sua brillante performance nella pellicola
diretta da Lina Wertmuller “ D’Amore e D’Anarchia”.
Ma per Alessio
il suo anno di nascita significava anche in un certo senso la sublimazione
di quell’amore spasmodico nei confronti dei mitici cartoni animati e dei manga
giapponesi. Dalle grandi serie “ yankee” prendevano forma cartoni animati come
“Jeanny” la genietta vestita da mille e una notte, alter ego del maggiore della
N.A.S.A Antony Nelson; “Star trek” e le mitiche orecchie del dottor Spock e dulcis in fundo “l’intramontabile
“Famiglia Addams” e l’iconica cagnolona “Lassie”.
Senza dimenticare prodotti a più ampio
respiro, i cosiddetti sempre verdi, come “L’orso Yoghi”, “Robin Hood”, “ il
libro della jungla” e i “Superamici” … ovvero Batman e Robin , Superman e Wonder woman formato famiglia.
E poi come
scordare “Jenny la tennista”, ogni suo match durava – se si era fortunati- una
settimana a set. E ancora “Babil Junior” e la sua mitica pantera nera;”
kyashan” il ragazzo androide, “la banda dei ranocchi”, “Cybernella” e “Sam il
ragazzo del west”.
Questo era il
vero mondo di Alessio Pangalli, dove fantasia e sogno andavano a braccetto,
catapultandolo in una dimensione tutta sua, dove c’era solo lui e non doveva
rendere conto a nessuno.
Ed Intanto – in
quel millenovecentosettantatre così denso di eventi : dalla crisi petrolifera,
alla caduta di Pinochet in Cile; dalla protesta degli studenti Greci nei
confronti del Regime dei Colonnelli, all’autobomba di Piazza Barberini e
all’attentato di Fiumicino- il Cinema italiano dava l’ultimo Saluto commosso
alla sua amata “Nannarella”, una donna sfortunata in amore; ma un’attrice di
polso e di cuore, che aveva saputo commuovere e convincere con la sua sentita
romanità addetti al lavoro e pubblico, come del resto testimoniava il suo Oscar
per “La Rosa Tatuata”.
Ma veniamo a cose serie quell’anno a Miss
Italia, nella città di Vibo Valentia, tra il venticinque Agosto e il ventisei,
Mike Buongiorno, sempre lui, incoronava la diciannovenne Margareta Veroni di
Carrara, che partecipava alla competizione in qualità di Miss Cinema, in
rappresentanza della regione Toscana.
Una ragazza castana di media altezza, segni
particolari un occhio verde e uno marrone, che avrebbe poi potuto vantare la
partecipazione nel 1975 al film
drammatico- erotico “Labbra di Lurido
blu “ , pellicola diretta dal regista Petroni ; con Lisa Gastoni, Corrado Pani
e Pino Caruso.
Anche se forse la vera vincitrice di Miss Italia
millenovecentosettantatre restava lei, una giovanissima Carmen Russo, che pur
non avendo avuto corona e scettro, aveva dato un calcio alla sua invisibilità.
Infatti alla
fine degli anni settanta, partendo da Antenna tre Lombardia, incrociando Ettore
Andenna e la sua” Bustarella”, arrivava in Rai – coltivando anche il suo alter
ego di “Carmen Bizet”-.
La sua
consacrazione avveniva poi negli anni ottanta alla corte di sua Emittenza “re
Silvio”, con programmi cult, come Drive in; Risatissima e Gran Hotel.
Ma torniamo al
prodotto migliore di quella annata, ovvero a quel piccolo bambino fermo,
immobile in quel rettangolo d’argento acciaccato dall’usura del tempo, che
all’Alessio maturo non gli faceva per niente tenerezza; anzi lo indispettiva,
per non dire che lo irritava.
Lui, quel
nanetto gioioso aveva la supponenza dell’essere più felice di questo mondo,
perché dentro la sua tenera scorza sapeva benissimo di possedere quella chiave
magica che di certo gli avrebbe permesso di giocare la carta dell’ingenuità.
Peccato per lui
! Viveva la vita con leggerezza, senza purtroppo mettere in conto che tutta
quella vanesia felicità era solo una bellissima utopia, creata ad arte per
illuderlo. Intanto di lì a poco ci avrebbe pensato la vita a risvegliarlo da
quel torpore così poetico e irreale … a calci nel sedere e a cazzotti ben
piazzati in pieno ventre.
Certamente
faceva la sua bella figura con quel grembiule bianco, che profumava di fresco
bucato, e quel fiocco azzurro, così graziosamente ingombrante! A vederlo lì
rigido in quella posa plastica e vagamente intellettuale, si poteva prospettare
per lui un destino prospero e ricco di realizzazioni certe; chi avrebbe potuto
mai immaginare che invece sarebbe stato vittima di una colossale barzelletta?
Il piccolo
Alessio aveva vissuto un’infanzia ovattata, non di certo per merito suo, ma per
quel tenore di vita che i suoi genitori gli avevano potuto dare grazie a quanto
avevano saputo costruire con il loro lavoro. La sua unica prerogativa era
quella di godere a pieno della situazione e di beneficiare di quei frutti,
disponendone per una propria soddisfazione personale. E la cosa gli piaceva
moltissimo, tanto era vero che nel fare ciò dimostrava un’attitudine davvero
invidiabile!
Ma per lo strano
gioco di un destino dispettoso; doveva dividere quel palcoscenico con altri due
fratelli che gli erano piovuti dal cielo come la più classica offerta di un
supermercato qualunque “ compri uno … te ne diamo due.”
Appurato che
bisognava accogliere ogni dono col sorriso stampato sulla faccia, il Pangalli
accettava – diciamo di buon grado- quel circo e lottava per la propria
sopravvivenza, tenendo conto che, nonostante amasse il ruolo da protagonista,
doveva accettare a denti stretti quello da comprimario.
Del resto
essendo il mezzano aveva imparato sul campo che lui era quello invisibile,
perché, che se ne dica, il primogenito e l’ultimogenito erano quelli che si
spartivano nel bene e nel male onori ed oneri.
E siccome
l’acerbo Alessio aveva ben compreso che di ogni necessità era cosa buona e
giusta crearsi una sorta di virtù salva vita, era riuscito, certamente per
merito di quel pizzico di fantasia e di follia, a resistere con stile ai primi
logorii della vita. Quindi, sebbene i rapporti con i propri fratelli non
fossero idilliaci, aveva stillato – nella sua testa ben organizzata- una specie
di vademecum della sopravvivenza: una distanza di sicurezza al fine di
salvaguardare la propria stabilità mentale; un fegato grosso come una casa per
difendere le proprie proprietà e un temperamento abbastanza passionale per
partecipare agli eventuali scontri al vertice, meravigliose battaglie fatte di
insulti, morsi e sputi … con la classica conclusione di porte sbattute con
grande impegno.
Ma la forza di
quella “adorabile canaglia” era di aver capito fin da subito le strategie
migliori per piacere al suo clan. Innanzitutto sapeva in ogni circostanza come
apparire sempre nella maniera più consona al desiderio altrui; inoltre aveva
quel piglio quasi artistico di manipolare la realtà a proprio piacimento,
avvalendosi di provvidenziali omissioni e di divertenti mezze verità. Era così
bravo in questo suo esercizio di libera creatività che lui stesso a volte
faceva davvero fatica a riconoscere il totalmente falso dalla verità.
Era così
abituato a crearsi un suo mondo parallelo che anche nell’invenzione della balla
più assurda, non diventava rosso e non faceva neppure una piega!
Qualora poi
venisse per disgrazia “sgamato” passava con disinvoltura al miracoloso piano B.
Non negava la sua colpa, anzi prendeva di petto la situazione e se ne assumeva
la piena responsabilità. L’unica cosa era che nel fare questa dimostrazione di
forzata contrizione, si mostrasse
umilmente affranto per l’accaduto; così da suscitare nell’autorità
coinvolta quella forma di pietismo sempre ben accetta, che gli avrebbe
risparmiato valzer di battipanni e ciabatte volanti.
Ma più passavano
gli anni e la vita andava logicamente trasformandosi … quel bambino, dal
grembiule immacolato e dal fiocco ingombrante, diventava sempre più selvaggio
ed arrabbiato con quel suo piccolo mondo circostante; fino a quando un Alessio
adolescente lo aveva definitivamente ucciso, durante quel compito in
classe, in quel tema dal titolo scomodo.
E ancora
oggi il cinquantenne Pangalli non aveva
ancora del tutto perdonato quel bambino ruffiano e paravento, reo – a suo dire-
di avergli rubato la felicità.
Fu dunque per
questa ragione che in quella notte così strana ed imprevedibile lui fece un
gesto del tutto incomprensibile, prese tra le mani quella cornice impolverata e
la scaraventò con sdegno contro il muro di quella stanza.
Era come se
volesse dimostrare di essersi affrancato per sempre dall’ingombrante presenza
di quel demone del passato; era come se volesse togliersi una volta per tutte
di dosso quella maschera di ferro che indossava da anni per nascondersi dalle”
rogne” e da tutta quella sporcizia che lo stava lentamente sommergendo.
Ma quei mille
cocci prodotti in quell’attimo di estrema fragilità non avevano fatto altro che
rattristarlo maggiormente, era sempre prigioniero di quella strana malinconia
che lo tallonava a vista e si guardava bene dal lasciarlo in pace. Era talmente
sopraffatto da quella strana atmosfera che si andava respirando in quella
piccola villetta, da non comprendere fino in fondo il perché di quella sua
inquietudine in quel giorno che in fin dei conti doveva solamente decretare un
nuovo “patto “ di non belligeranza e di convivenza forzata con la sua maturità,
giunta ad un traguardo importante, una ragguardevole fandonia … mezzo secolo di allucinazioni e di mezze
tragedie.
Che strane
sensazioni stava provando Alessio! Emozioni contrastanti che per la prima volta
erano riuscite a far traballare il suo equilibrio; era come se il suo stesso
baricentro fosse stato espugnato violentemente da una forza oscura che di lì a
poco lo avrebbe senz’altro condotto sull’orlo di un precipizio virtuale.
Fino a quando si
ricordò di quel pacchetto di carta dorata, chiuso da quel fiocco bianco,
candido come la neve , che aveva abbandonato con stizza in un angolo buio di
quel piccolo salotto. Lo prese tra le mani e, con poca eleganza – per meglio
dire - con tangibile avidità, quasi con una certa arroganza, si affrettò a
scartarlo e con piacevole sorpresa vi trovò sistemata, con gran cura, una copia di pregevole fattura, “
dell’Egmont” di Goethe.
Un’opera,
musicata anche dalla fantasiosa creatività di Beethoven, in cui venivano
elogiati eroismo e sacrificio di un aristocratico Fiammingo, che, durante la
repressione spagnola, attuata dal Duca di Alba nell’anno 1568, rinunciò alla sua stessa vita per manifestare
la sua innata devozione ed il suo profondo attaccamento alla Patria olandese.
Per il Pangalli
quel libro aveva la stessa magia della “madeleine” di Marcel Proust … una dolce
memoria involontaria che lo accompagnava,mano nella mano, tra le braccia del
ricordo di Frau Muller; la sua insegnante di tedesco.
Un cielo
azzurro, avvolto da quella calura estiva, così insistente e soffocante, danzava
attorno a quella chiesa dall’anima germanica, in quella strada dal sapore
antico … per quel solenne “Ultimo Saluto” dal sapore strano.
Quanta folla!
Eppure Alessio si sentiva fastidiosamente solo in quelle quattro mura dalle
tinte barocche che piano piano gli toglievano il fiato.
E lui si domandava
più volte dove fosse Dio …
Si guardava
attorno in quella stanza semi buia, ricordandosi di quell’Angelo sorridente
… e i suoi diciotto anni erano ormai
alle spalle.
La sedia era
tristemente vuota e nel cassetto di quella cattedra aveva nascosto Fichte : il
finito cercava l’infinito!
Parole belle
parole si frantumavano nell’aria; mentre il ministro celeste si apprestava a
lenire, con una specie di conforto studiato a tavolino, quel dolore silenzioso.
Ma quel Volto di
donna – la sola che lo aveva davvero capito fino in fondo-fuggiva stremato
dalla natura, perfida matrigna … Frau
Muller era stata per Alessio una ipotetica bussola, quel punto fermo che solo
la piena consapevolezza di una donna poteva rappresentare con fierezza e
giudizio.
E lui il giorno
dopo ci sarebbe stato ancora e quindi cercava – come un ossesso- di trattenere
con rabbia il più possibile, perché il domani, come fiume in piena, avrebbe
travolto il tutto senza produrre alcuna colpa riscontrabile.
S’intonava con
malinconia un canto nuovo quasi di speranza: il PARADISO era vicino. Ma chi
poteva affermare veramente di averlo veduto?
La suora del catechismo o l’insegnante di religione?
Con passo
compìto e composto si allontanava in punta di piedi quello scrigno color della
semplicità che imprigionava a tradimento un giovane cuore – del tutto ancora
vergine di cattiveria- che avrebbe potuto avere nuovamente l’opportunità di
giocare a dadi con il suo stesso destino. Una giovane vita che senza ombra di
dubbio avrebbe ancora regalato emozioni importanti.
… Così il
Pangalli, assorto nella sua genuina incredulità, si interrogava con astio sul
perché un ragazzino ancora acerbo avesse dovuto assistere a quello
sciacallaggio voluto dalla medesima natura. Si domandava il motivo per cui
quello stesso ragazzino dovesse farsi recidere il cordone ombelicale una
seconda volta. Ma dov’era Dio?
Alessio era
estremamente romantico e folle allo stesso tempo; tanto è vero che pensava che
tra la terra ed il cielo ci fosse una piccola porta rossa che nascondeva mille
meraviglie … E allora socchiudeva gli
occhi; immaginando che il dolce sorriso di Frau Muller: donna, madre, moglie e
amica speciale avesse varcato la fatidica Soglia. Una lacrima solcava il suo
viso, mentre il suo cuore gridava afono quel pallido auf wiedersehen.
Povero Alessio!
In quella notte, che stava passando dal diciannove al venti marzo; la sua testa
dava forfait in tutti i sensi. Era come se in essa agisse una ragnatela di fili
metallici in grado di castrare ogni suo pensiero, ogni sua emozione.
Le date, gli eventi , i ricordi; nonché gli
arrivi e gli adii si stavano affollando con grande prepotenza nel recinto di quelle ”belve” silenziose,
potenze oscure –manipolatrici seriali-
pronte ad esercitare la forma più
subdola di prelazione. Tanti angeli avevano
riempito il suo cielo, anime belle la cui vita si era intersecata in un
fantasioso cammino comune lungo la strada della conoscenza. Il piccolo
salottino di quella villa d’angolo – al “Villaggio dei Pini”- era vuoto ormai;
ma era talmente rivoluzionato da sembrare un campo di battaglia, dove le
nevrosi umane avevano fatto a botte con ogni forma di buon senso: tra calzini
nel porta caramelle e mutande che piovevano dal lampadario … per non parlare di
quel divano retrò che pullulava di bottiglie vuote di limoncello. Perfino il
gatto Pancrazio, trovatello leggermente in sovrappeso, aveva alzato il gomito
ed ora russava come un pascià in un piccolo angolino buio avvolto in quel
cachemire verde acqua del suo adorato padrone.
Capitolo Secondo
Alessio
era talmente partito di testa che aveva, con un pennarello indelebile,
deturpato quel quadro di famiglia sistemato – alla maniera di una piccola
“vedetta Lombarda” – sopra quel plasma formato cinema.
Dipinto
che rappresentava, fiero nella sua divisa, il buon e caro comandante Gedeone
Pagnozza, prozio di sua madre Bruna e per la proprietà transitiva suo avo
lontano anni luce.
Un
marcantonio con due baffoni alla “Peppino”, così tanto abituato a condurre il
suo piccolo esercito di disperati, da trattare il mondo che lo circondava come
una sorta di caserma universale da plasmare a sua immagine e somiglianza.
Per
i suoi modi alquanto aristocratici ed eleganti ricordava il “ Colonnello
Edmondo Bernacca”: poteva venire qualsiasi cataclisma, ma lui imperterrito, con
la sua bacchettina d’osso e la cartina dell’Italia – come il melenso “Maestro
Perboni” del libro “cuore”- da vero divo, tirava dritto e alla fine, facendo lo
splendido, ti consigliava di uscire con l’ombrello.
Anche se il Pagnozza ricordava pure “ Ernesto
Calindri”; grande attore di teatro, che per la generazione di Alessio era
semplicemente “ Mister Logorii della vita”.
“Il
Re dei carciofi” insieme, alla vecchia Natalina, non la colf del prete, ma la
furba nonnina, che, con Manfredi e il suo caffè, si era fatta la villa …
rappresentavano l’essenza di quegli anni settanta e di quegli anni ottanta, che
avevano fatto di Alessio … la persona che alla fine era diventata.
Gedeone Pagnozza
era un vecchio comandante in pensione che abitava in una soffitta spartana,
situata in via dell’Oca al civico 17, nella Milano dabbene.
La sua soffitta
si trovava nel condominio “ la Ginestra”; che faceva parte del vasto complesso
residenziale “Pino Selvaggio”.
Gedeone viveva
tutto solo nella sua piccola bomboniera, perché sua moglie donna Gertrude era
passata a miglior vita da più di vent’anni.
L’unica donna
che aveva una sorta di lascia passare per varcare ancora quella zona
militarizzata era Filomena Belfiore, badante tutto fare, votata all’abnegazione
più totale, magistralmente devota, come uno zerbino gioiosamente tutto da
calpestare. Mena – per gli amici- era la sosia perfetta della mitica signora
Luisa, la vamp della pubblicità anni 80 … grande pulitrice di gabinetti, in
quanto lei ci metteva gran vigore e un detersivo miracoloso.
Il vecchio
soldato a 89 suonati era davvero un grand viveur. Ringalluzzito da quella sua
profetica caramellina blu, ogni sera prendeva la sua Gilda, la sua fedele Bianchina,
per andare a sollazzarsi e a rigenerarsi con la benefattrice di turno.
Ma il buon
Gedeone era conosciuto dalla Madama, perché aveva quella strana abitudine
di appostarsi, quatto quatto, dietro i
cespugli del parco Piaggetti. E vestito solamente di quel corto accappatoio di
spugna nera amava mostrare la sua virilità, spaventando le sventurate
coppiette, al grido di banzai.
Perfino i
servizi sociali avevano tentato di redimerlo ad ogni costo, ma invano. Infatti
la prima assistente sociale, dopo uno scontro
corpo a corpo, si vide sfilare di dosso la gonna a tradimento, restando
- per l’ilarità generale- in mutandoni
arcobaleno.
Mentre il
secondo assistente dovette subire l’onta di una specie di supplizio di Tantalo,
il suo lobo destro veniva strappato a morsi voraci dalla dentiera un po’ perversa del nostro
attempato zuzzurellone. Mike Tyson
docet!
Insomma il caro
Gedeone non era altro che un gran
“sagoma” fuori come un balcone. Sicuramente un po’ porcellone, ma una
simpatica canaglia da rinchiudere in una struttura protetta; dove sarebbe stato
certamente l’anima della festa.
Purtroppo quel
cinque maggio di un anno prima … in un pomeriggio piovoso il nostro” Bonaparte
alla amatriciana” salutò i suoi fans in modo assai rocambolesco.
Tutto accadde
sul cornicione del condominio la Ginestra ; mentre, cannocchiale tra le mani,
il buon Gedeone stava spiando le grazie della giovane Teresina, la domestica
della famiglia Persichetti. Per una banale distrazione il vecchio mandrillone
perse l’equilibrio e cadde nel vuoto.
Da quella
sciagura l’unica trionfatrice fu Mena Belfiore, prima badante … oggi ereditiera
a nove zeri. Infatti la donna era talmente entrata nelle grazie di quel
maialone, che in quattro e quattr’otto si ritrovò padrona della soffitta, titolare
di un ricco conto in banca e dulcis in fundo pilota della irrinunciabile Bianchina,
l’amica devota dell’Ugo nazionale.
Insomma in
quella casa ovunque si posava lo sguardo … si andava ad imbattersi in una
mostruosa falla declinata al maschile e quel maledetto pendolo impolverato non
faceva altro che evidenziarla impietosamente con i suoi battiti atroci ed
implacabili.
Alessio era
distrutto, non era mai stato così sfatto in vita sua. Spettinato, trasandato
nel vestiario e colpevole di un fetore senza precedenti, misto di vomito,
alcool e nicotina.
Di quel “fighetto anni 80” non c’era più
traccia! Era rimasto solamente la pallida copia di un povero cretino alla
deriva.
Di certo non si
sarebbe mai aspettato in quella notte- alla boa del suo mezzo secolo di vita-
di dover mettersi di fronte a se stesso e di dover combattere un’ardua ed
assurda battaglia contro i suoi fantasmi; scoperchiando una volta per tutte
quel fetido pentolone di fastidi, di menzogne e di verità mai confessate.
Il Pangalli era
fondamentalmente un gran vigliacco, una macchietta disgustosa che della fuga ne
aveva fatto una sorta di mantra esistenziale e quando non fuggiva giocava di
buon grado la carta delle “Tre Scimmiette”.
E mentre la sua
testa incasinata compiva questo volo pindarico di considerazioni e si dannava
nell’annoso tentativo dello sconfiggerle ad ogni costo; gli venne
improvvisamente alla mente Lorenzo, un ragazzo non ancora ventenne, conosciuto
durante un periodo di studio nel capoluogo Piemontese.
Lorenzo era
stato uno strano incontro, che nella vita gli sarebbe capitato certamente una
sola volta. Una piccola ed inaspettata sorpresa piovuta dal cielo quando meno
se l’aspettava. Conoscere questo ragazzo era stato per Alessio come
risvegliarsi in un sogno confuso; quasi una piacevole allucinazione in cui si
fermava a sentire il respiro di un Angelo triste, perché aveva sporcato le sue
ali … ed era pronto a precipitare nel suo inferno.
Gli aveva
permesso di guardarsi dentro, di cercarsi con frenesia e alla fine di
riscoprirsi un “Bastardo” qualunque che si era venduto per due lire al primo
incantatore di serpenti, che gli aveva donato quella falsa illusione di essere
felice, quando in realtà non si sentiva altro che uno zero assoluto in un
plotone di numeri primi.
Si erano conosciuti
a metà degli anni Novanta a “Gianduia City”, una città forse un poco ruffiana;
ma che alla fine ti sapeva prendere per eleganza e magia.
Avevano
condiviso per circa due anni una “stamberga” nei pressi di Piazza Statuto che
stava in piedi per miracolo, vivendo a stretto contatto con le loro piccole
cose di un quotidiano, fatto di gioie e di dolori.
Come quando
rimanevano basiti – camminando per via San Domenico – nel vedere quel tizio
alquanto naif, ricoperto solamente dal suo lucido “Moncler”, che portava fiero
a spasso i suoi “gioielli di famiglia”. Erano rimasti, la prima volta, così
scossi nell’assistere a quell’inaspettato siparietto, così esilarante, che si
aspettavano, all’improvviso, che un Tizio o un Caio qualunque venisse dal nulla
gridando: “ complimenti .. siete su Scherzi a Parte!”
Il perché della
loro amicizia era molto semplice a spiegarsi, si erano piaciuti subito per la
loro semplicità; entrambi forse avevano conservato un poco di quella genuina e
sorniona fanciullezza che permetteva loro di vedere il mondo a tinte tenui.
Alessio vedeva
in Lorenzo una creatura malinconica che amava giocare con la propria esistenza
sul filo del rasoio!
Gli ricordava la
figura del buon René, creatura ben plasmata dal Romantico Chateaubriand, un
pallido eroe stanco delle sue stesse battaglie che, boccheggiando nelle piccole
e grandi tragedie della vita, si era fermato a quella grande finestra e, come
candela disillusa, andava dolcemente annullandosi in quelle emozioni senza
tempo. Per Alessio era certamente difficile – se non quasi impossibile- non
rimanere affascinato dal modo di essere dello stesso Lorenzo. Lui, nella sua
silenziosa genialità, appariva quasi come un vero “dandy” anni novanta al mondo circostante! Peccato
solamente che i più non erano per niente in grado di leggere ed interpretare la
sua medesima malinconia; in questo modo il più delle volte non facevano altro
che castrargli l’anima … avvelenandogli così in maniera irreparabile il suo
paradigma esistenziale.
Inoltre il
Pangalli era rimasto assai folgorato dalla capacità innata di quel ragazzo, non
ancora ventenne, di giocare con i tratti a matita, i colori ad olio, la
prospettiva geometrica e ogni forma di chiaro–scuro ; l’eterno dilemma
artistico tra luce ed ombra. Invidiava –in modo sano e mai malato- quel suo
talento indiscusso; perché in quei tratti, così delicati e ben ponderati, vi
leggeva sicuramente le emozioni più belle e toccanti che un cuore ferito
potesse mai generare …
Nei suoi
schizzi, nei suoi disegni, infatti, sembrava che ogni suo soggetto uscisse
dalla tela o dal foglio e che prendesse forma, annullandosi a sorpresa - anche
abbastanza prepotentemente- nella sua angoscia; dove frustrazioni e sconfitte
camminavano le une accanto alle altre, in un silenzioso “corteo funebre”!
Lorenzo era roso
dentro da un tarlo difficile da debellare, perché era nato e cresciuto con lui:
un padre autoritario ed ottuso da tarpare quelle sue giovanili aspirazioni,
bollando il tutto come la più patetica farneticazione di una gioventù pigra e
lazzarona; che si faceva venire il vomito solamente sentendo pronunciare
l’orripilante parola “lavoro”!
Non riusciva di
fatto ad apprezzare fino in fondo quel suo dono così grande e speciale che il
buon Dio aveva deciso di affidargli.
Anzi faceva
veramente di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote e per fargli sentire la
sua inadeguatezza; era arrivato perfino ad innalzare un evidente muro di gomma
che li divideva in modo inesorabile.
E alla fine di
quella guerra di nervi quel buon padre di famiglia era riuscito, con astuzia e
crudeltà, a farlo desistere dai suoi sogni d’artista; facendolo marcire in quel
grigio Politecnico a Gianduya City.
Alessio aveva
ben compreso che Lorenzo aveva avuto per sua disgrazia due genitori che-
purtroppo- erano stati freddi e distaccati; preferendo puntare il tutto per
tutto sulla loro realizzazione professionale.
E non importava
se gli avevano garantito una vita comoda ed agiata da piccolo Lord inglese, il
fatto decisamente più disgustoso era stato quello di avergli negato la consapevolezza
di essere amato e ben voluto.
Ma nonostante
tutto ciò; era stato vezzeggiato e coccolato da quella nonna, che per lui, non
aveva che rappresentato una specie di buona e di saggia madre di riserva.
Proprio questo
suo ciarpame di esistenza aveva fatto sì che lui stesso si andasse perdendo in
un mondo parallelo, malinconico e cupo; in cui la luce della verità e quella
della libertà si stavano spegnendo lentamente.
E il povero
Pangalli aveva una paura fottuta per lui; perché giorno dopo giorno lo vedeva
perdersi nella sua dannazione, svendendosi – per noia e per disperazione- a
quel Vizio Bastardo che, senza accorgersene, lo stava trascinando nel baratro,
gli stava succhiando anima … cuore e cervello.
Ogni maledetto
istante … che quella demoniaca clessidra esistenziale lo torturava; “Ale” lo
vedeva sempre più triste precipitare nel nulla.
Lorenzo non si
accorgeva nemmeno più di chi gli stava attorno e di certo non vedeva affatto la
mano tremante, che, invano, un vinto Alessio cercava di tendergli ad ogni
costo.
Voleva
trattenerlo a sé, con tutta la sua rabbia ed impotenza; ma lui era come quel
palloncino rosso acquistato alla fiera del paese che gli scappava di mano!
Lorenzo riusciva
a farsi amare anche nelle sbavature più vistose del suo carattere e del suo
modo di porsi agli occhi altrui; perché possedeva quella dolcezza interiore che
gli rimaneva appiccicata addosso come la “coperta” di Linus.
Eppure era come
una bomba ad orologeria – innescata da quel suo folle desiderio- di una
“creativa” autodistruzione … lui nella vita prediligeva l’acceleratore al posto
del freno a mano.
Ma era una bella
persona … l’ultimo nostalgico tra i sognatori : quel
poeta silenzioso – che sotto quel salice piangente- tentava di scrivere le
pagine più belle del suo romanzo interiore, cercando di evaporare nel nulla.
Alessio
ripensando a Lorenzo era pienamente consapevole che le loro strade si erano
solamente intersecate per due anni … veloci e frenetici; anni in cui la
stupidità giovanile aveva portato loro a divorarsi la vita a grandi morsi;
senza gustarsi a pieno la loro vera essenza.
Però
il Pangalli era anche convinto che un incontro, una persona veramente sentita,
vissuta e divorata, lo avrebbe senz’altro accompagnato fino alla tomba; perché
era come un vestito cucito a pelle … di buona fattura: lo avrebbe quindi avvolto con calore,
valorizzato e fatto sentire più “figo”!
E
il giovane ricordava ancora con vera gioia quel Natale di metà anni Novanta
quando un Lorenzo – ancora sconosciuto- con quel suo sorriso malinconico gli
donava quel prezioso regalo inaspettato, lasciandolo senza parole.
Un
gesto che lo aveva conquistato perché non calcolato … il sigillo definitivo di
un’amicizia nata per caso .
Alessio,
in preda a quel suo scombussolamento interiore, mentre si guardava-
completamente sfatto e sgangherato- allo specchio; non poteva fare altro che
odiarsi profondamente.
Nella
sua alquanto piatta vita amorosa, l’ennesima débacle all’orizzonte. E l’incauto trofeo di una caccia assurda
primeggiava, affannosamente, nello squallore di quel monotono déjà vu!
La
sua giovane mente, da assuefatto piccolo borghese di vedute assai ristrette,
appariva sempre più turbata … confusa e
non faceva altro che vomitare, a tradimento, parole allucinate, che andavano ad
incastonarsi in una lettera …. Una sorta di misterioso grido d’aiuto in attesa
di un salvifico e profetico salvagente!
“Mi
sono venduto ai pensieri più neri di un giorno senza fine; di una notte
depauperata da ogni emozione propria.
Non
ho più lacrime che bagnano questo mio cuore arido ed affranto.
Morta
è ogni sensazione dentro di me!
Maledico
me – con estrema dolcezza- mentre affondo in questo mare di nostalgia negata …”
Il
giovane e sprovveduto Pangalli più si guardava riflesso dentro quello specchio
logoro e scheggiato … più riaffioravano quelle mille ostilità che piano piano
lo avevano trascinato in un labirinto senza fine; in una trappola per sorci,
sempre pronta a funzionare e a fare la festa al miglior offerente.
Di certo, Ale, si stava accorgendo a sue spese
di quanto la sua stessa anima risultasse sdrucita; di quanta immondizia si
nascondesse dietro quel suo volto perso.
Difficilmente
la sua indole, così glaciale nei confronti del sentimento altrui, avrebbe
potuto lasciarsi sedurre da quella strana voglia improvvisa di un benefico
pianto liberatorio.
Ma
in quella dannata circostanza, così poco definita e decisamente sorprendente,
il suo pianto, oramai era previsto
copioso.
Quindi
senza pudore e particolare remora; la bizzarra fantasia scendeva su quel volto ancora vagamente
fanciullesco; soprattutto lungo quelle gote d’alabastro, aspettando in silenzio
di essere accarezzate e ben comprese.
E
allora in quel piccolo mondo a parte- fatto anche di castelli in aria – si
annidava beffarda l’ombra patinata di
Barbara Persiani … la sua compagna di liceo; la classica ragazzina sciocca di
provincia che lo aveva sedotto, usato e poi abbandonato.
Lei
frequentava la sua stessa scuola, non per merito o perché possedesse un
cervello fruttuoso o degno di nota , capace di portare a termine una simile
impresa … ma semplicemente per casta!
Barbarella,
come la chiamava affettuosamente il professore di filosofia, era l’improbabile
ed imbarazzante figlia del leggendario notaio Guido Persiani; omuncolo avido e
gran porco di professione: un nome, una garanzia per quel piccolo ed inutile
circo di provincia … dove falsità ed ipocrisia erano all’ordine del giorno!
Sprovvista
di morale propria e di ingegno umano, la poverina, cretina per vocazione,
campava a sopravvivere glorificandosi con il mondo intero per quel suo corpo da
pin-up e per quella sua fisicità tanto discutibile: alta, slanciata … le
provocanti forme al posto giusto in uno
spettacolo di piacevole idillio; che suscitava i più bassi istinti animaleschi
di chiunque – per sfortuna sua- si trovasse a suo gentil cospetto.
Nel
piccolo borgo la Barbarella era conosciuta con l’appellativo di “farfalla”
… infatti leggiadra non disdegnava
affatto di passare con gran disinvoltura da fiore a fiore per cercare il
polline migliore!
Quanta
gioia e quanta gradita beneficienza aveva dunque elargito nella sua pur breve
vita!
La
sua giornata tipo – a parte parcheggiarsi cinque ore dietro un banco di
facciata la mattina- consisteva in una stucchevole autocelebrazione del suo ego
smisurato … nella venerazione estrema di quella sua “paciosa” femminilità,
disarmante ed ammiccante allo stesso tempo.
Il
pomeriggio “chérie “ , la giovane Persiani, trascorreva tre noiosissime ed
interminabili ore in una palestra di lusso per modellare cosce e glutei;
affinché quella sua carne soda ed accattivante, non provasse l’onta e la
vergogna di un tragico ed inevitabile declino “nella valle della mediocrità”.
Immancabile
nel carnet di Barbara il the delle cinque rigorosamente sorseggiato alla
caffetteria del centro - quella più chic
del luogo- dove il pettegolezzo veniva servito su di un vassoio d’argento!
Naturalmente
come una vera vip che si rispetti … lei non compariva mai da sola sul luogo del
delitto. Alessio restava sempre la sua prima scelta perché era una specie di
“Vitellone Felliniano” da mostrare in pubblico con orgoglio. E poi lo aveva
addomesticato così bene ad ogni suo capriccio e ad ogni sua perversione, che
era così divertente vederlo scodinzolare davanti a lei, in cambio di due
coccole e due grattini!
Se
Alessio dava forfait all’ultimo, Barbarella non si perdeva di certo d’animo e
tirava fuori dal suo cilindro il buon Giorgio, che le ricordava il “Pierre
Cossò “ del “Tempo delle mele”; a suo discapito il fatto che tartagliasse
peggio di una mitraglia e che per frequentarlo doveva munirsi o di un ombrello
– possibilmente formato famiglia - , oppure di un buon impermeabile.
E
poi sul suo libro-paga c’erano Carlo il ganzo, con la sindrome dello zerbino,
Gianni il tirchio … boia mondo ci fosse stata una volta che quella
adorabile zecca avesse avuto per sbaglio
il portafoglio con sé! Asso nella sua manica Michele il perfettino, pareva
avesse studiato con profitto dal detective “Adrian Monk” … Ciliegina sulla
torta il nauseante Piero, il figlio del Santoni, impresario funebre di grido.
Narcisista seriale, così tanto innamorato di sé, che aveva assicurato ogni
parte del suo corpo e che aveva perfino già firmato un accordo per farsi
ibernare e ritornare poi a splendere di
nuovo in un futuro prossimo!
Ma
“Lady Barbara” era una ragazza dal cuore d’oro e amava aiutare con ardore il
suo prossimo e quindi –come una buona madre di famiglia – portava a turno nel
suo “Piccolo Paradiso” un membro della squadra di calcetto del paese, in questo
modo il fortunato prescelto avrebbe potuto gioiosamente sollazzarsi con lei su
quella giostra!
Chiunque partecipasse- nolente o volente- alla
sacralità del rito delle cinque si vedeva poi obbligato ad accompagnare la
figlia del notaio Persiani nella via centrale di quel covo di vipere invidiose;
cosicché “Chérie”, gongolante del suo essere donna, potesse mostrare al mondo e
ai suoi fans quanto di buono la natura le avesse donato.
Per Barbarella il tempo andava incalzando e quindi, dopo aver concesso lo
straordinario onore di una sua indimenticabile passerella e dopo aver
stuzzicato i pruriti di quei quattro cafoni arricchiti, tornava beatamente
sorniona nel suo caldo nido.
La dimora Persiani più che una casa non era altro che un grande e
lussuoso albergo cinque stelle: gente che entrava; gente che usciva ad ogni ora
del giorno.
Qui in queste mura di amorale perdizione, la ragazzina si faceva quattro
salti in padella e poi come la “Marylin dei Poveracci” subito in bagno, pronta
per il restauro! La nottata era tutta sua!
Alle venti e trenta minuto più minuto meno, una cabriolet grigio
metallizzato l’aspettava con estrema devozione nell’angolo più buio della via,
lontana da occhi indiscreti e domande alquanto imbarazzanti e ridondanti.
E lei, la regina della notte, come una cenerentola senza orologio, alle
quattro del mattino, annunciava il suo rientro, scendendo da un fuoristrada
giallo “ Titty il canarino” e cantando a squarciagola una “tenera melodia”;
come fedele “Baccante” … ancella devota del buon e vecchio dio Bacco!
Barbarella era solita, come da copione, al sabato … disdegnare l’impegno
scolastico, poiché urgeva l’irrinunciabile appuntamento con Fabrice, il
coiffeur … amico e confidente. E sia mai, crollasse il mondo, che un sabato lei
potesse rinunciare a questa goduriosa necessità!
I suoi capelli erano una priorità a prescindere, era vitale per lei
trascorrere il sabato al salone di bellezza: la sua chioma doveva passare ad
ogni costo da quel biondo paglierino, oramai demodé, a quel rosso acceso … da
professionista titolare indiscussa di quel palo17!
Generalmente il week-end era per la giovane Persiani l’occasione
migliore per frequentare quella beauty farm all’ultimo grido … ma soprattutto
l’occasione più ghiotta per sedurre – in incognito- l’ultimo sventurato di
turno!
Eh sì! Avere una relazione stabile e sicura con la dolce Barbarella
significava non solo assicurarsi un piccolo crack finanziario; ma
principalmente mettere in preventivo l’acquisto certo di un pacchetto completo
di sedute terapeutiche presso un buon psicoterapeuta, nella speranza più rosea
di aver quel colpo di sedere per ritrovar se stesso!
Accadeva in una fredda notte di dicembre, mentre la nostra Barbarella,
rintanata sotto quel piumone di oca giuliva, guardava un film col bel Di
Caprio. All’improvviso la svolta! Una scritta piccola, piccola scorreva
frettolosa ed intrigante su quello schermo piatto, ultimo modello. Si
cercavano, infatti ,nuovi talenti per una serie televisiva. Era gradito un bel personalino!
Così l’indomani, zaino di Prada in spalla e tra le mani una fetta di
pane con la nutella, la nostra piccola eroina era seduta su quel pullman di
terzo livello: direzione una vitale ed accattivante Roma capitale!
La noia più nera sembrava accarezzare quel viaggio interminabile. Ma in
una stazione, dimenticata da Dio, lo sguardo seducente di quella “Bovary
nostrana”, scrutando oltre quel finestrino sporco di cacca di uccello,
incrociava uno sguardo languido e malinconico di un giovane ragazzo trasandato.
Com’era diverso quel seducente vagabondo! Capelli corvini, lunghi …
portati ribelli fin su quelle due spalle ben messe … occhi verdi come lo
smeraldo più puro, tristi, dannatamente tristi. Vicino a lui una vecchia
chitarra malconcia.
Non era certo uno di quei soliti viziati figli di papà, ai quali lei stessa
si era concessa più volte, per noia e per vanità, a cuor leggero!
Il pullman si fermò come per magia e Barbarella, per la prima volta, agì
dunque d’istinto … non pensando al suo proprio tornaconto … MIRACOLO!
Raccolse il suo zainetto di Prada e senza pensarci corse incontro al vero
amore!
Nel piccolo e stonato borgo di plastica nessuno la vide più! E quei
pochi che giurarono di averla incontrata … dicevano di averla veduta in giro
per l’Europa, nelle piazze delle più importanti capitali: il pallido cavaliere
servente suonava con quella chitarra sgangherata melodie di cuore e lei
leggiadra, come l’ultima étoile, danzava sulle ali di una ritrovata felicità,
finalmente libera di essere realmente se stessa!
Alessio, pallido come un cencio, era sempre là ! ostinatamente immobile e
prigioniero della sua immagine, come un fantasma in cerca della sua eternità!
Folle pazzia di indigesti frammenti; susseguirsi disordinato di fastidiosi
momenti di blanda serenità, vigliaccamente ancorati in un’anima grondante di
una utopica malinconia!
Ricordi indelebili di un letto sfatto nella breve passione di uno
sbadiglio, mentre i respiri, che prima si cercavano nell’intrigo benevolo di
quella voglia primordiale, andavano lentamente morendo nella penombra
appassionata di quella timida candela, che illuminava- a sorpresa- quel drappo
orientale che odorava di zenzero e di vaniglia.
Due corpi sudati, uniti in una musica senza tempo, ballavano increduli in
quei brividi di puro tormento e di meravigliosa estasi reciproca;
contemplandosi nelle stonature forzate di quella melodia inaspettata!
Lei, tenera più che mai, lo prendeva per mano in quel malizioso gioco di
sguardi maldestri, trascinandolo in quella ragnatela metallica di un teorema
votato all’assurdo; umiliandolo con quella malefica sciarada di baci convulsi,
sperando invano in un semplice “ TI AMO”.
E lui, gran bastardo di professione, si lasciava accompagnare nella
menzogna più nera di quell’isola che non c’era, perché troppa era la paura di
risvegliarsi l’indomani in un freddo letto vuoto!
Il Pangalli – che il Cielo lo fulmini- si toccava freneticamente le carnose
labbra; quelle stesse labbra che si saziavano – boriose- di fresca ipocrisia
giovanile: tanti inutili “ TI AMO” più simili ad affilati coltelli; pronti a
squarciare, di gran carriera, l’inconsapevole preda di turno … una carcassa di
beltà vestita, da mostrare, con fastidiosa tracotanza, al mondo intero.
Mentre ,lei vittima perfetta, era solo una povera creatura predestinata
alla follia d’amore! E certamente, vogliosa com’era, avrebbe dunque fatto di
tutto per lui; perfino vendere la sua acerba essenza al primo Mefisto
qualunque, che avrebbe strizzato l’occhio per una notte esplosiva di fuochi
d’artificio! Affinché il suo tarlo amoroso si potesse così concretizzare in un
grido assoluto di passione ancestrale, senza limiti e senza confini …
A lei, infelice ed illusa fino al midollo, non pesavano affatto quei
quindici anni di differenza; non le interessavano per niente le risatine dei
ben pensanti e le frecciatine assai velenose di un Alessio scostante e maligno.
Lei
implorava semplicemente amore; anche un amore fasullo … un amore di
circostanza, insomma anche una squallida liaison di plastica la poteva
soddisfare!
E
lui, barbaro invasore, anche un po’ puttana, lo sapeva benissimo … e così ci
giocava a più non posso! Solo sesso chiedeva; un gioco a due, di perversioni
reciproche, dove quell’anima debole e bramosa d’amore, “la Boccalona del
giorno” per intenderci, cercava quell’esplosione incontrollata di sensi
galeotti, in grado di innescare una calda caccia al tesoro senza precedenti!
Insomma un piacevole parapiglia di piccole schermaglie da consumarsi –
preferibilmente- sotto quelle lenzuola di seta nera …
Del
resto lo stesso Ale nella sua diabolica infelicità non era certamente capace di
manifestare fino in fondo uno straccio di trasporto emotivo. Era come se quel
giovane virgulto vivesse ogni suo amplesso in una sorta di palestra virtuale;
dove proprio lui era l’atleta di punta; l’uomo dei record!
CAPITOLO TERZO
E così la grande notte
delle “verità nascoste” proseguiva a ritmo serrato; come se gli stessi eventi
fossero sparati a raffica da una macchinetta spara palle.
E in quello specchio di
avvolgenti amarezze e di fini trabocchetti, non si materializzava altro che un
infingardo labirinto di ricordi funesti, che andavano lentamente frantumandosi
nel sorriso spento di un ragazzotto benestante, automa di se stesso.
Era dunque stata lei,
Barbarella, la parte tarata dei suoi primi trent’anni! Quell’assurdo complotto
di anime perse, che si svestivano della propria moralità, per intraprendere una
lunga ed estenuante cavalcata alla conquista del loro vello d’oro!
Quel loro primo e
furtivo incontro,forse voluto da un destino beffardo, avveniva in quel giardino
fiorito, che costeggiava, in un dolce abbraccio, le antiche mura della stessa
chiesa in onore di Santa Anastasia.
Vivo era il sorriso di
lei, vestita a festa, in quell’abito corto a pois blu. Un fiore tra i capelli e
quella bionda tra le dita ingioiellate. Lei, gradevole ed appetibile, era
seduta su quella panchina di cedro antico, mentre, con civetteria, si
apprestava a sistemare quel trucco cascante.
E lui spavaldo, come
quella orrenda fiera in attesa di concupire la sua sventurata preda, si
avvicinava guardingo e, senza proferir parola, le sfiorava la tremante mano.
Le sorrideva, ammiccando proposte indecenti,
fino a quando era sicuro che quelle fragili barriere di difesa non fossero
state pronte a crollare in modo definitivo e lui potesse calare il suo asso
nella manica.
Alessio aveva vinto
un’altra volta! Come godeva il Bastardo … dentro di sé! Quel parassita
dell’amore aveva trovato un’altra volta la chiave giusta per scalfire
l’ennesimo cuore bisognoso d’amore! E adesso festa! Con una mano impudente le
accarezzava la chioma corvina e con quell’altra libera le sbottonava, uno ad
uno, quei bottoni di madreperla che impreziosivano quella camicetta bianca in
san gallo.
E lei ubriaca, più che
mai, dolcemente ferita da quella freccia di Cupido; dipingeva quella tela
ancora vergine!
Come scivolava lento, ma deciso, il velluto
della sua giovane mano, che, come in una danza propiziatoria di un popolo
lontano, esplorava goduriosa quel possente corpo semi nudo di un Pangalli
tronfio, alla scoperta di una rinascita personale, nell’atrio più segreto di
un’ Afrodite ritrovata!
Ricordi brevi, istanti
atrofizzati in quelle rugose pieghe di uno specchio mendacio!
Alessio era stanco,
tremendamente stanco! La sua immagine riflessa lo infastidiva a tal punto da
succhiargli linfa vitale a tradimento!
Era ormai una specie di
larva umana, che, per pigrizia e per paura di restare solo con se stesso, si
attaccava, con morbosa ossessione, all’amore di lei, sperando in una pesca
miracolosa!
Ma proprio quel dannato
san Valentino gli era stato fatale!
Lei vedeva lui per la prima volta; lei
finalmente lo poteva percepire per quello che realmente era. E subito, quei
mille e mille castelli, in aria di armoniosa progettualità, andavano sgretolandosi
in un doloroso addio, vestito di rimpianti e di verità inconfessabili.
Lui, libero da ogni
vincolo e mortificato nella sua vanità, accompagnava, mesto, lady Barbara
verso quel treno di libertà!
Nessuna parola nell’aria, solamente mani che
si stringevano forti e sciami di lacrime impazzite, che scendevano copiose nel
silenzio di una colossale sconfitta, che sanciva di fatto la fine di una farsa
lunga una stagione.
Ale, sfinito e vinto,
si allontanava da quello specchio maledetto, e girandosi, di scatto, verso il
suo sécretaire, secondo impero, si versava un cognac d’annata, premio
consolatorio di un addio malinconico. All’improvviso, il ragazzotto vizioso
afferrava un pesante posacenere in pietra e, con una grande veemenza, lo
scagliava contro quel vetro profetico; maledetto specchio … piano piano – lui
demone- gli aveva deformato l’esistenza e la matrigna di Biancaneve aveva avuto
un’altra volta ragione!
Si lasciò cadere a terra come un peso morto e
si raggomitolò nell’angolo più buio di quella stanza opprimente, proprio come
era solito fare da bambino, per sfuggire i tuoni e i lampi.
Ma la giovane Persiani
non fu l’unico errore della sua vita amorosa; ci furono almeno altri due eventi
“omologati” che dimostravano – a chiare lettere- di come Alessio Pangalli non
sapesse amare; perché nessuno si era mai preso la briga di educarlo ad una sana
affettività … lui era semplicemente un “ignorante” che leggeva l’amore come una
semplice palestra; dove la prestazione contava molto più del sentimento!
La sua vita era sempre
apparentemente trascorsa lieta in quella piccola cittadina di provincia, dove
ogni cosa sembrava priva di volgarità, dove ogni sentimento si proiettava in
modo benevolo ed avvolgente.
E qui il suo primo capriccio, la sua prima
schermaglia d’amore … si chiamava Camilla, capelli d’oro sulle spalle ed occhi
cielo; che avevano quella strana magia di
farti sciogliere e di farti sentire un “vero cretino”.
Lei, la ventenne ancora
acerba, fasciata nella sua salopette di jeans slavato, con quegli occhialoni
retrò in finta tartaruga e quel foulard a tinta unita che le castigava – come
in un dolce segreto- quella sua fluente chioma, stava dicendo addio per sempre
a quella giovane studentessa, appena diplomata al conservatorio.
In quella afosa
domenica di luglio si apprestava a lasciare quel nido che l'aveva svezzata nel bene e nel male.
E così dopo aver
raccolto i pochi brandelli della propria esistenza –lieta e timorosa allo
stesso tempo- si avviò di buon grado alla piccola stazione...sicura in cuor suo
di aver compiuto per la prima volta la scelta migliore per sé stessa e
soprattutto per la sua sanità mentale.
Era confusa, briosa come una mente desiderosa
di apprendere e, non voltandosi indietro, nemmeno per sbaglio, salì sul treno,
sinonimo di libertà.
Malinconicamente la
cittadina, quasi per magia si stava piano piano allontanando e con essa
andavano scemando anche i rancori e i
fantasmi di un passato ancora troppo recente; quando l’arroganza e la
prevaricazione del suo ex la facevano sentire stupida ed inutile: una bambola
da gonfiare e da sgonfiare a seconda delle esigenze e della convenienza del
momento.
Camilla con la fantasia
più fervida di un poeta ancora in erba cercava nella sua testa alquanto
frastornata dagli stessi eventi … risposte sincere ed utili a quelle domande
irrinunciabili sul suo domani.
Amore sincero cercava. Non era brutta, eppure la capricciosa Afrodite l'aveva
sempre punita con passioni sbagliate, che istante dopo istante, l'avevano
catapultata involontariamente in labirinti di lacrime e ostilità.
All'improvviso ecco apparire dal nulla lui Alessio Pangalli; presenza
inaspettata ma più volte desiderata.
Era assai prestante in
quella sua fulgida uniforme di aviere: lui era su quel treno che l’avrebbe
condotto in quella caserma, dove avrebbe prestato e portato a termine il suo
obbligo di leva.
Nessuna parola tra i
due in quello scompartimento; solamente un intenso gioco di sguardi e di intese
reciproche, improponibili ammiccamenti che andavano a turbare la vacillante
moralità di quella zitella acida ed attempata che faceva l’uncinetto e sperava
in cuor suo di essere violata almeno una volta nella sua misera vita fatta di
certezze e banalità.
Improvvisamente il treno si arrestò, e il
giovane Pangalli, così fiero e snob nei suoi gesti, aprì lo sportello,
sparendo nella poesia di una sera di mezza estate...
A questo punto Camilla
raccolse la sua piccola storia e
seguì il suo cuore, scendendo da quel treno che in fondo le stava cambiando la
vita.
Camminava... lei
camminava contenta, come quel bimbo in cerca del seno materno, sicura di
trovare una sincera risposta al suo bisogno di essere amata e vissuta come
l’amore vero esigeva, senza fronzoli e soprattutto menzogne che il più delle
volte offendevano la sua stessa intelligenza.
il ragazzo –quel
Alessio Pangalli, da lei sempre venerato- entrò
in un grande parco...e proseguì lungo un viale costeggiato da un esercito di
antichi cipressi; sembravano cecchini pronti a farti la pelle!
Fino a quando si trovò
d'innanzi ad una porta dall'altero aspetto, che conduceva in un muto castello,
appartenuto per generazioni alla sua stessa famiglia, ma erano anni che non lo
frequentava più in modo assiduo. Forse perché timoroso o semplicemente per pigrizia!
E lei l'indomita Camilla, che aveva assistito impassibile ad ogni passo di quel
pallido milite, senza riflettere, decise di aprire la porta del desiderio più
nobile.
E come una moderna e tenace Arianna sfidò quel
suo
labirinto di calde incertezze; dimenticandosi l'importanza del suo stesso
"filo".
La sua andatura era
tarda e lenta, quanto speranzosa; ma nonostante ciò il suo cuore andava
pulsando all'impazzata; come se dovesse esplodere all’improvviso.
Salì una scala a
chiocciola.
E si ritrovò quindi nel
suo mondo incantato, perché di fronte a lei … c’era lui, il bell’eroe dei
pensieri suoi più torbidi!
Come poteva dunque resistere a quel
fascino travolgente? Di certo non avrebbe mai potuto dire di no agli occhi cerulei di Alessio Pangalli; i quali
la incalzavano come quel vento romantico, primo amore di Shelley.
E lui, intanto, come
l'Alessandro Magno dei giorni nostri avanzava da bravo alfiere – in divisa di gran gala- su quella
scacchiera
degli amori indecenti; dove ragione e sentimento si prendevano a
cazzotti, senza esclusione di colpi .
Ma quando fu d'innanzi alla sua Fedra, si
sciolse come neve al sole, accarezzandola tutta con le sue forti, nel mentre i
biondi capelli di lei si liberavano lieti da quella treccia infantile.
Le ore e i minuti
trascorrevano tanto furtivi quanto benevoli, permettendo ai due giovani amanti
–ancora alquanto acerbi- di proseguire nei loro giochi proibiti.
Lui con una mano le
sbottonava la camicetta e con l'altra si occupava di quel tenero seno. Mentre
indomita lei, per la prima volta, si sentiva finalmente donna.
E quando i due ragazzi, paghi della loro
estasi, si scoprirono
nudi, come Adamo ed Eva nel Paradiso celeste, si rifugiarono sotto morbide
lenzuola di seta nera...
La notte si disperse
assai velocemente in una melodia di Cherubini gioiosi.
Il mattino seguente un pallido sole danzava puntuale in quella
stanza del piacere, baciando in fronte l'ignara Camilla, che si risvegliava
felice nel cuore, perché stranamente provava ancora quella gioia interiore …
quando a quella bambina gracilina veniva
regalata quella bambola parlante da lei tanto desiderata.
Ma lui non c'era più!
la paura e la forza dell’amore lo avevano rapito; nascondendolo in un mare di
mille domande e di mille perplessità.
Passavano tiranni i
giorni e del giovane non si seppe più nulla; solo ricordi di una canzone
nostalgica.
E lei, la più cretina
tra le romantiche e la più ostinata tra le devote,
come il buon Argo nei confronti del suo amato
Odisseo, consumava il suo fuoco in una notte buia; davanti a quella
finestra che si gettava su quell’orizzonte di vane ed inutili illusioni, che le
toglievano il fiato.
Aveva donato la parte
migliore di sé a quel ragazzo, che aveva sempre creduto essere il riflesso più
bello e genuino di quello specchio ideale; che invece le aveva, alla fine dei
conti, sempre mostrato la deformità di un amore, nato troppo presto e del resto
poco coltivato e anche poco coccolato.
Quanti ricordi ! il
povero Ale non ce la faceva davvero proprio più; aveva trascorso un compleanno
di cacca; ricevendo auguri e regali imbarazzanti da persone di plastica; che
parlavano tanto, ubriacandolo di “nulla” … per accorgersi poi che a nessuno
fregava veramente di lui e che tutto sommato quella notte allucinata, non era
capitata per caso; anzi rappresentava l’occasione più ghiotta per affrancarsi
in via definitiva da tutto e da tutti, perché finalmente gli avrebbe permesso
di buttare giù da una torre ipotetica tutte quelle iene e tutti quegli sciacalli, che nella sua esistenza …
avevano cominciato a dilaniare pezzo per pezzo quel suo corpo già mutilato di
pensieri e già glabro di passione. Era tutto surreale in quella notte pazzesca
… Alessio senza accorgersene stava compiendo una sorta di meraviglioso viaggio
nei meandri di se stesso; ed ora si immaginava in quel pomeriggio di fine
luglio di parecchi anni prima. Quando un sole assai potente sembrava avere la
repentina voglia di scaldare i cuori umani ed Heidelberg pareva appisolarsi
muta ed impietrita d’innanzi a quel malinconico turista immerso nei suoi mille
e mille dubbi.
Ma fu quel fortuito
incontro di sguardi a cambiare le carte in tavola! Sabine – vent’anni di lì a
poco-, nella più romantica giornata della sua gioventù malsana, trascinava quei
suoi piedi così stanchi, mentre spingeva quella carrozzina, ultimo modello.
Qui, seduto, vegetava Andreas, fisicamente offeso e presente nella sventura
stessa; ma idealmente smarrito nel suo dolore più profondo.
Di certo non era più il
ragazzino, che, sorridendo, andava incontro alla meravigliosa scoperta della
sua essenza più vera. Erano lontani, troppo lontani, quei suoi giorni di
gloria, quando spavaldamente cavalcava la sua bicicletta da corsa, sfidando
quel vento amico nella speranza di una bandiera a scacchi da oltrepassare con
gioia. E lei l’amata Sabine- come fedele Penelope- lo attendeva al varco per
donargli il fatidico bacio della vittoria, pegno di quell’amore semplice ed
incondizionato.
Ora su quel vecchio
Ponte che, guardingo, cullava il fiume Necker; c’erano solamente due fantasmi,
due inutili e silenziosi estranei.
Se chiudeva gli occhi,
Sabine si rivedeva davanti al portone dell’Haus zum Ritter, in compagnia di
Andreas: due teneri amanti che si cercavano con grande insistenza; le mani di
lui sfioravano i capelli di lei e lei si sentiva al settimo cielo, mentre le loro labbra si avvicinavano
inevitabilmente, annullandosi dolcemente in una melodia di calda passione.
Ma nel momento in cui
Sabine ritornava alla più dura realtà e il suo sguardo si sgretolava d'innanzi
ai resti di quella larva umana; le lacrime non facevano altro che scenderle
abbondanti, lambendole quelle gote d'alabastro:
"Dov’è finito il
mio Andreas?... Non è possibile che quella inguardabile “accozzaglia” di pelle e di ossa possa essere quello stesso
ragazzo forte che, nei miei momenti più bui, mi stringeva tra le sue forti
braccia e con parole di zucchero mi faceva dimenticare le brutture della vita.”
Pensava tra sé e sé
Camilla. E intanto cercava invano di vincere il prima possibile quell’improvviso
ed inafferrabile momento di grande sconforto.
E adesso in tutto quel marasma … quel suo grande trasporto per Andreas stava
decisamente vacillando e la cosa le faceva veramente paura, tanto da sentirsi
sporca dentro!
Che stranezza solo due
anni prima era proprio lei, che, seduta ad un tavolino, mentre sorseggiava una
pils a Marktplatz, aveva giurato eterno amore al suo cavaliere senza macchia;
accettando quell'anello di corallo
Come si poteva sentire
libera di gettare al vento tutto quello che l'amore le aveva donato con grande
bontà fino a quel momento?
Tutti quei pensieri la facevano sentire malvagia, brutta dentro; non poteva
neppure negare di aver più volte desiderato la morte di Andreas.
Cavolo il giovane uomo
aveva solo vent'anni e chiedeva solamente di poter vivere!
Lentamente il vortice
di quei pensieri si stava allentando nella mente di Sabine. I due ragazzi erano
quindi giunti al vecchio castello di Heidelberg, quel gioiello dalla gotica
atmosfera, le cui mura possenti davano l'idea alla fragilità umana di una
discreta protezione.
Subito Camilla, senza una logicità di
pensiero, corse verso la più piccola delle torri.
E affacciandosi si
accorse che d'innanzi a lei il mondo le appariva sempre più piccolo; ma
certamente più buono. Un mondo in cui lei doveva - senza riserve- stare accanto al suo Andreas!
Dall'alto di quella
torre, con occhio languido, Sabine contemplava il Philosophenweg, quell'immensa
distesa di verde, impreziosita da una moltitudine di alberi secolari e di fiori
i cui colori le evocavano forti sensazioni di una pace interiore quasi
ritrovata.
Eppure quel flusso
impazzito di ricordi le faceva
rammentare quei loro teneri
giochi amorosi anche lei e il suo Amore avevano varcato a piedi nudi quel
Paradiso.
Sabine di colpo tornò
alla realtà,si diresse verso Andreas: lui era là!
Gli occhi erano chiusi
ed un sorriso dipingeva quelle silenziose labbra.
La ragazza si chinò sul
ragazzo,con delicatezza gli prese la mano,era gelida!
Il cuore di Andreas si era di colpo addormentato. E Sabine era finalmente
libera da quel giogo, che- d'incanto- si
era dissolto nel nulla.
E allora perché quel
sottile velo di tristezza era così palpabile nell'aria?
Ma il destino era
sempre in agguato e anche in quella occasione avrebbe di certo saputo mettere i
bastoni tra le ruote ad Alessio e Sabine e di lì a poco sarebbe di certo
accaduto come in una profezia ben scritta e rispettata!
Alessio aveva seguito
di nascosto quell’epilogo amaro che silenziosamente andava chiudendo per sempre
l’idillio perfetto di quei due innamorati.
Da una parte era rimasto alquanto scosso da
quel coup de théatre e da quel finale
tanto malinconico quanto beffardo; dall’altra parte invece era spinto dal
vortice della passione verso quella ragazza sconosciuta, che, grazie al suo
sguardo intrigantemente triste, lo aveva rapito, sedotto e soprattutto
invogliato; neppure Barbarella la ribelle e Camilla l’aristocratica erano
riuscite, con le lo loro armi di seduzione e di provocazione, ad incasinarlo di testa e di cuore a tal punto da fargli
perdere letteralmente la “brocca” e portarlo a diventare il perfetto “zerbino”.
Eppure Alessio aveva
vissuto le sue storie precedenti con convinzione e voglia di mettersi in gioco;
perché lui aveva dell’amore un rispetto ed una devozione quasi maniacale, come
se volesse dimostrare al mondo di essere un uomo in carne ed ossa e non un
automa dalle mille maschere.
Ma quella volta ad
Heidelberg il giovane Pangalli aveva toccato con mani la follia e la leggerezza
dell’amore più puro … quello con la A maiuscola e il desiderio di annullarsi –
senza riserve- nel piccolo mondo interiore dell’altro, per riscoprirsi poi
importanti e parte di un progetto.
E la stessa Sabine –
con quel suo volto provato e quell’aria
sfatta ed allucinata – rappresentava per quel giovane straniero l’opportunità
più concreta per essere veramente felice, opportunità non da respingere; ma da
coglierla al volo! Non gli era mai capitato, infatti, fino a quel momento di
essere attratto da una ragazza in quella maniera così prepotente e repentina.
Aveva sempre sentito
parlare di brividi e di farfalle nella pancia; ma in vita sua non aveva mai
provato questo tipo di emozione; forse perché fino ad allora il sesso non
veniva coniugato all’amore; ma era solamente una specie di palestra dove
battere il proprio record personale.
Insomma alla qualità
prediligeva la quantità; la sua bacheca doveva sempre contenere un cimelio per
ogni “sciocca ochetta” che la sua stessa ruffianeria aveva saputo abbindolare!
Ma con lei no! Dal
momento in cui i loro occhi avevano avuto “come dono del cielo” l’incontro
perfetto; Alessio aveva provato dentro di sè- per la prima volta da quando era
al mondo- un’esplosione inaspettata … una battaglia infinita di sensazioni
irripetibili, una scarica di piacere disumano.
Aveva una voglia pazza
di lei; un desiderio furioso di appartenenza reciproca per scoprire insieme i
segreti e le trappole dell’amore … il Pangalli insomma si sentiva un uomo
nuovo; capace di coniugare finalmente il verbo “amare” in tutte le desinenze
possibili ,che il cuore potesse auspicare.
E così ci fu l’idillio
finale! In una bella ed estiva domenica di agosto; un cielo innamorato perso di
quel sole fiero riscaldava quei prati intenti a cullare le loro fragili
margherite …
Nell’aria sembrava
quasi trionfasse una grande armonia di festa, dove non si udiva altro che una
sequela di appassionate melodie … che la stessa natura aveva partorito nel suo
ventre fecondo.
Mentre nel cielo terso
andava trionfando l’immagine di quella nuvola a forma di bimba, goffa nella sua
camminata infantile, che, con forza, stringeva la rassicurante mano di un
giovane padre, di appena trent’anni.
E loro … Sabine ed
Alessio fluttuavano nella leggerezza di una grossa bolla d’aria – nella
consapevolezza di essere finalmente vivi: due corpi lanciati da una Mano
Fortunata che si avventuravano in quel loro “Giardino dei Balocchi”.
Erano come
bambini scalzi che rincorrevano nel vento il loro aquilone di carta pesta,
mentre un mimo di altro tempo flertava con la curiosità dei passanti.
E quei due
innamorati alfieri di un sentimento ormai in disuso si erano addormentati sotto
quella quercia centenaria l'uno abbracciato all'altro.
Una madre
ancora in erba stringeva al suo seno quella creatura che, ancora alquanto
smarrita e confusa da tutto quel clamore, sorrideva alla vita.
Là solo e timoroso nascosto tra gli alberi se ne stava segretamente in disparte
un piccolo laghetto artificiale, dimora principesca di un cigno ballerino.
Lui bello e lucente nella sua veste di eterna purezza era solito regalare ai
visitatori stupiti meravigliosi spettacoli, stupendi nella loro semplicità.
Lui con eleganza e discrezione scivolava su quello specchio cristallino
disegnando la parabola di un miracolo senza fine.
Quel nobile
cigno era la stella di una rappresentazione senza prezzo,era il legame terreno
con l'arte nella sua vera essenza.
E chiunque
lo avesse incontrato con lo sguardo anche solo per un istante non avrebbe mai
potuto evitare di sentirsi più libero dentro di sé.
Per Alessio
ripensare alla bella Sabine non era evidentemente facile e piacevole; in quanto
il finale di quella storia non l’aveva di certo ancora digerito.
Di certo per lui quel 1993, fatto di luci e di
ombre, non rappresentò che l’inizio di una lenta ed occasionale parabola
discensionale. Un anno in cui nasceva la più grande “Truffa” della storia
moderna e contemporanea, ovvero “L’unione Europea” … quel pseudo teatrino che
avrebbe poi portato allo “schifo” targato terzo millennio. I Balcani erano in subbuglio e “ l’allegra
Banda Bassotti” giocava alla politica nei Palazzi Romani [sempre più spa e
centri benessere che luoghi di proficuo lavoro], tirando fuori dal suo cilindro
una nuova “austerity” – memori del successone avuto vent’anni prima.
E se il
“divin Codino” vinceva il Pallone d’Oro; due grandi stelle lasciavano il loro
firmamento : Audry Hepburn e Federico Fellini.
Ma il 1993
era anche l’anno in cui a San Remo un’acerba Laura Pausini implorava “la
Sciarella” dell’epoca di ritrovargli il suo Marco … l’unico che aveva capito
tutto era stato Ruggeri che sempre in quella Kermesse l’aveva zittita
cantandole “Mistero”!
La cronaca
nostrana martellava sul caso Elisa Claps e gli imbarazzanti silenzi degli
ambienti ecclesiastici; mentre, dopo le stragi degli anni precedenti, la mafia
faceva la pelle a Don Puglisi in quanto persona scomoda e destabilizzante.
L’unico
spiraglio di luce di quell’anno
horribilis erano la burrosa zia Assunta e la tossica Yetta; star
indiscusse del Team Francesca Cacace da Frosinone.
Ogni qual
volta sentiva “ All that she wants” degli Ace Of Base e il che in quel periodo
era quasi una prassi; non poteva fare altro che domandarsi che fine avesse
fatto quella ragazza bionda che gli aveva regalato sicuramente la notte più
bella della sua vita. Quella vita che era altro che un meraviglioso girotondo
di incontri e di adii e lui non rappresentava che l’ignaro pittore che li
dipingeva a tradimento sulle pareti di quel cuore che mendica invano amore …
Lui
correva; eccome se correva … affannandosi come un matto alla ricerca di ogni
piccolo tassello che la componesse, affinché lui stesso non smarrisse la sua
vera identità.
ERA
UN VIAGGIO, UN INDIMENTICABILE VIAGGIO VERSO L’OBLIO DELLE SUE PAURE, DELLE SUE
FRAGIITA’ ALLA RICERCA DI QUEL NESSO LOOGICO CHE LO RICONDUCESSE ALLA SUA
LUCIDA FOLLIA , QUEL MOMENTO CATARTICO CHE LO RENDESSE FINALMENTE CAPACE DI FARE PACE CON SE STESSO.
E LEI DIAMANTE ERA
STATA QUEL PORTO SICURO IN CUI SI ERA RIFUGIATO – IN SILENZIO – FUGGENDO
DOLCEMENTE DA QUELLA CLESSIDRA AMARA,
PERCHE’ SOLAMENTE NELLA SUA ORBITA SI SENTIVA ACCOLTO, VOLUTO E INDUBBIAMENTE
CAPITO..
CAPITOLO QUARTO
Alessio respirava a
pieni polmoni quella strana notte; un’accozzaglia di pensieri ed emozioni non
calcolate gli stavano letteralmente masturbando il cervello. Si sentiva
braccato, come quella piccola bestiola insanguinata dai pallini di un perfido
cacciatore alla ricerca della sua preda. Non riusciva a fare niente; ma dentro
di sé bruciava forte quel desiderio contrastante di fuga dalla realtà
contingente. Avrebbe voluto annullarsi per non respirare più quell’aria viziata
di dubbi e di pesanti contraddizioni.
Era stanco di doversi,
ogni istante della sua vita, confrontare con se stesso e con quelle mille e
mille sfumature del suo carattere che in fin dei conti andava sempre
scontrandosi con tutto e con tutti.
C’era solamente una
persona che di fatto poteva sopportare, con classe e stile, tutte le sue
paranoie e tutti i suoi malumori …. E quella persona era sicuramente Diamante!
La loro strana e
meravigliosa avventura ebbe il suo formale inizio nel momento in cui Alessio
vide per la prima volta, all’età di tredici anni, la piccola Diamante … un
incontro apparentemente anonimo, sul quale un buon giocatore d’azzardo non
avrebbe mai scommesso neppure un euro; perché privo di mordente, forse un
cliché che profumava di stantio.
Paffuto il piccolo Pangalli, paffuta lei, in
quella palestra fatti sciente, due anime sole e diversamente simili si erano
all’improvviso incontrate e senza alcuna ragione e logicità da lì a poco sarebbe germogliato quello strano quid che
sarebbe poi diventato un patto solenne
di mutuo soccorso o semplicemente materia folle
per un romanzo di formazione.
All’inizio di questa storia ad Alessio non era
che fosse particolarmente simpatica Diamante, o per meglio dire non l’aveva
nemmeno mai considerata e calcolata, come del resto aveva fatto anche lei.
Diamante era
teneramente goffa ed insicura, ma nascondeva già dentro di lei quel fascino galeotto di “ conquistatrice
seriale”, che l’avrebbe- in seguito- distinta nella massa.
Sicuramente a tredici
anni appariva come una anonima creatura che aspettava in silenzio di sbocciare
alla vita e di spiccare finalmente il volo e mentre lo faceva … cercava di
gestire al meglio la sua costante ricerca di sé.
Quell’anno di pseudo
frequentazione, si scambiarono – si e
no- due o tre “ ciao”; parole forzate e pronunciate a denti stretti, insomma,
dei saluti formato cortesia, per non apparire a quel piccolo mondo di Amélie,
così simpaticamente provinciale, snob o cafoni.
Tutto ciò sicuramente
era accaduto perché insicuro lui e forse
refrattaria lei, non erano riusciti a sedurre il tempo a loro favore;
oppure perché una sorta di destino beffardo aveva deciso che quello non era
ancora il momento più opportuno e
galantuomo per quelle due anime.
E così – come per
magia- quella creatura non pervenuta al
Pangalli si rese evanescente nell’estate del 1986, anno che quel ragazzino
ricordava ancora con piacere, nel bene e nel male.
Se i più –in quell’anno- correvano in edicola alla
conquista del primo numero di Dylan Dog;
Alessio invece si struggeva dentro perché dal suo piatto andava sparendo
l’insalata e qualsiasi vegetale a foglia, causa giochi perversi con atomi
impazziti !
Ma la sciagura forse quella più grave, quella
che gli rodeva maggiormente, era il fatto che non poteva più neppure sbronzarti
allegramente con il nettare degli Dei;
perché il metanolo andava di gran moda, per la gioia dei Cugini
d’Oltralpe che, sfregandosi le mani, ridevano a crepapelle. E lui l’illuminato
Alessio aveva bisogno di quella “benzina” per sopravvivere dignitosamente
all’idiozia “all’amatriciana”.
In politica era il
momento del “ buon “ Bettino il parafulmine di tutta l’allegra combriccola …
Tutti avevano le mani
sporche di marmellata; perché avevano vergognosamente attinto dallo stesso
vaso; ma secondo il famigerato ”costume all’amatriciana “si sacrifichi il primo
GEGIONE di turno e si salvi le chiappe agli intoccabili” … e l’uomo dal
garofano rosso era all’unanimità lo spauracchio più appetibile.
E così in vero stile
“spaghetti western” venne umiliato e
deriso, alla stessa stregua dell’ALBATROS di Beaudelaire, senza contare che i
cosiddetti amici, nascosti nell’angolo, falsamente affranti, se la facevano con
la refurtiva della rapina del secolo.
Anche
il gossip più caciarone, quello delle “sciure milanesi” dal
parrucchiere, in quel 1986 brillava di luce propria, celebrando e decantando
Sarah “ la rossa”, consorte tutta pepe di Andrea di Windsor . La simpatica
ribelle ne faceva di cotte e di crude per tenere allegra “la povera Bettina!”
Sara la Bomba era stata quella stessa perla rara che negli anni novanta si era
divertita come una pazza a giocare con il ditone dell’aristocratico piede
Toscano, parente di quella sagoma dell’
UGOLINO, che con i resti dei suoi avversari faceva baldoria.
Mentre a Salsomaggiore,
spronata dalle note di “Si può dare di più”, trionfava una incredula Roberta
Capua.
Anche se Alessio,
fedele al motto …” devoto fino alla morte”, andava avanti nella sua convinzione
che dopo Federica Moro ci fosse stato solamente il vuoto!
Quell’anno per il
piccolo Pangalli, accompagnati dalla colonna sonora “ TOUCH ME “ di Samantha Fox, ci furono gli
esami di terza media; mentre per Diamante si parlava semplicemente di promozione
alla classe successiva, ovvero la seconda media.
Una volta terminati gli
esami e venuto a conoscenza dell’esito degli stessi; il buon Alessio partì
quasi subito, destinazione lago di Como, con la consapevolezza che a settembre
avrebbe frequentato quella blasonata “Alcatraz”, scelta che poi si rivelò
alquanto azzardata, poiché da quel momento ogni sua decisione si trasformò in
una imbarazzante “Waterloo” di ripensamenti e di cambiamenti di rotta.
E della piccola
Diamante, ragazzina paffuta ed occhialuta, ben presto se ne sarebbe dimenticato
completamente, anche perché il loro primo incontro fu una “ flashata “ arida e
priva di implicazioni emotive.
A quel tempo e in quella precisa
circostanza, il Pangalli non ricordava;
o per meglio dire non aveva mai saputo, quale fosse il suo nome di battesimo.
Passarono gli anni, due
per essere più precisi e pignoli. E
tutto accadde in un modo quasi rocambolesco, come in una barzelletta
scritta dal destino.
Per uno strano incastro
di eventi, a quindici anni Alessio comprese bene, che, nonostante amasse il
latino alla follia - soprattutto il caro vecchio Svetonio, grande biografo
della Roma imperiale, così tanto ruffiano quanto colto ed elegante - la sua
esperienza con quella prigione “maledetta” poteva dirsi brillantemente conclusa
… causa vistosa incompatibilità dei soggetti coinvolti.
Il Pangalli infatti si
era trovato a boccheggiare in un ambiente ipocrita; dove purtroppo la persona
veniva valutata non per il suo valore, ma solamente in base al suo pedigree e
soprattutto alla sua dichiarazione dei
redditi. Quando lui si iscrisse, avevano perfino avuto la brillante idea di
aggiungere due nuove sezioni perché vi era stato un miracoloso aumento delle
iscrizioni. Col risultato che si venne a creare una sorta di apartheid
intellettuale; perché nelle sezioni storiche, quelle dove il paraculismo era di
gran moda, si era pensato bene di inserire la crème de la crème e in quelle nuove … la plebe, il volgo; insomma
quei disgraziati, che non potevano vantare un cognome da leccarsi i baffi e che
tanto meno non potevano giocarsi la
carta della BUSTARELLA selvaggia.
E siccome tutto quel letame sapeva di stantio
e gli faceva letteralmente schifo … dentro di lui sentiva il bisogno di prendere le distanze
da quel piccolo mondo antico, che di certo non poteva appartenergli più; o
forse non gli era mai veramente
appartenuto !
Col senno di poi e una
visione più limpida della realtà, ammise a se stesso di essersi iscritto a quella
SETTA, non per convinzione, ma per bieco opportunismo.
Una pietosa commedia …
semplicemente per tentare ancora una volta di piacere a suo padre, visto che in quel tempo, e forse
ancora oggi ,aveva sempre quello strano sentore di essere il figlio di serie
b, quello fuori di testa per indole e idee; quello pigro e indeciso che quando
la strada si faceva in salita, girava i tacchi e ne prendeva una più comoda.
Insomma tutta quella
sciarada non era altro che un patetico tentativo di essere all’altezza del
desiderio e delle aspettative altrui.
Un bravo strizza cervelli, quello che per ogni
suo respiro rapina la parcella, “l’
avrebbe menata” con la storiellina del
famelico bisogno di amore, quel grido d’aiuto, che se non ascoltato si
sarebbe trasformato in una corsa contro
il tempo verso il frigorifero.
E così fu! Era
diventato infatti una sorta di mongolfiera deforme e a casa era “ palla di
lardo” o “ bue grasso”.
Sinceramente la cosa
non lo toccava più di tanto; perché avendo sempre avuto di suo uno scarso
autocontrollo, rispondeva all’onta dell’offesa con sputi e sedie volanti.
Ma di una cosa doveva
ringraziare sempre quella blasonata galera
e in particolare due secondini, due pseudo docenti, la cui laurea era
stata ottenuta con i punti del supermercato. Il primo secondino, causa la sua
proverbiale grettezza,era stato ribattezzato con l’onorevole appellativo di
“Rogna”; mentre il secondo, causa il suo essere melenso in un modo stucchevole e raccapricciante era
conosciuto con il nomignolo di Micione; imbarazzante fumetto alla MAFALDA; così
maledettamente tenera e molle da fare concorrenza a quel tonno che si poteva
tagliare col coltello!
E oggi Alessio diceva a loro cento volte grazie; un grazie
di cuore, perché proprio qui in questa jungla di ipocrisia e slealtà, si era
gentilmente messo in testa la corona d’alloro.
Infatti aveva composto
la sua prima farneticazione, la meravigliosa e indimenticabile “ODE ALLA
MORTADELLA”, un testo senza precedenti, una commovente celebrazione
dell’insaccato bolognese:
“Mortadella mortadella
Sempre
meglio della nutella
Lo sa
bene tua sorella
Che la
usa anche in padella
Mortadella
che delizia
Una
libidine per la Patrizia
Mortadella
che goduria
E io
rinnego anche l’anguria
Mortadella
sul divano
E lei si
fa quel gran sultano
Mortadella
garantita
Lui si
gode la partita
Mortadella
col panino
E io mi
sento assai divino
Mortadella
a te mi inchino
Sorseggiando
questo vino.”
Naturalmente, visto
l’alto contenuto morale di questo spiazzante canto dei “salumieri”, ne seguì
una ovvia spedizione punitiva ai danni dello studente Alessio Pangalli.
E quindi si andava con
il tango! Innanzitutto, seguendo la prassi, tutta quella simpatica cialtroneria
gli valse una visita guidata nella tana del “MISTICO”: il Boss di Alcatraz …
Ma – poi chi se ne fregava!- Essendo per sua
stessa natura abbastanza socievole era ben felice, quasi onorato, di passare del tempo con Lui.
L’importante per il Pangalli era stato schernire quei
secondini e quelle loro nefaste manie. Del resto si capiva che la povera
Miciona era una persona sola, senza la magia di una valvola di sfogo coniugata
al maschile, annoiata dalla vita e acida come la strega dell’Est.
Qui nel cavò del
MISTICO gli toccò suo malgrado di sorbirsi un tanto banale quanto scontato
cazziatone all’amatriciana. Un cumulo di “BLA … BLA … e l’autorità parlava e
parlava!
Con voli pindarici
faceva quello che nella vita gli riusciva meglio; si accartocciava nel suo
angolo del pentimento ad attendere il cenno propizio per tornare da Canossa,
perdonato e riammesso a corte!
Quando poi – dopo
particolari traversie e simpatici fuori programma – il nostro impavido Alessio
finalmente ottenne il meritato passaporto per la sua “ liberazione
intellettuale.”
E così prima di partire
per le sue tanto agognate vacanze; dovette a malincuore compiere una sorta di
pellegrinaggio informativo, visitando quasi tutti i Paradisi del circondario che potevano
soddisfare la sua idea di educazione scolastica.
La sua simpatica
crociata fu alquanto snella e certamente ben mirata. Poi alla fine – ironia
della sorte- optò di approdare nella sua piccola e sconclusionata città, che,
bontà sua, gli aveva regalato i natali.
E qui, in questo luogo
ameno, sorgeva l’imponente palazzo dai fasti antichi, vestito di mosaici e di
vetrate di mille colori. Un liceo situato nella via più centrale di quella
piccola comunità.
Sorpresa del destino: “
ricomparve lei, Diamante!”
Lui non la riconobbe subito o per meglio dire non
riuscì a ricollegarla immediatamente a quella ragazzina, gentil fantasma dei
suoi tredici anni.
Era cambiata,
meravigliosamente cambiata e di quella ragazzina paffuta non c’era più nulla,
erano restati solo gli occhiali, ma alla moda, sottili e dorati in una forma
vagamente tondeggiante; di certo non erano più quegli osceni plasticotti anni
ottanta, che le davano quell’aria radical -chic di una Mafalda qualunque, che
della biblioteca ne faceva una ragione di vita.
Aveva rotto quel bozzo
che la imprigionava e aveva indossato le ali sue più belle, perché aveva oramai
ben compreso che il suo sguardo e il suo sorriso disarmante sarebbero state le
sue armi migliori per prendere finalmente il volo.
Fu lei ad attaccare bottone e a farmi presente come
c’eravamo già incrociati anni addietro alla scuola media.
Lui non la ricordava
affatto, ma per non fare la figura da “ cioccolataio” glissò con stile, facendosi vedere
infervorato d’innanzi a quella lieta novella!
Anche se lei mangiò la foglia immediatamente e comprese il
suo goffo tentativo di una cortesia di circostanza … per tentare di chiudere
quanto prima l’imbarazzante situazione.
Era pur vero che
Diamante e il giovane Pangalli – all’inizio-
non è che si prendessero granché; niente tarallucci e vino insomma;
anzi ad essere sincero si stavamo pure un pochino antipatici .
Questo forse era dovuto
al fatto che erano due animali da palcoscenico, diciamo pure un tantinello
narcisisti, e la smania di applausi non poteva che dividerli!
A dirla tutta non erano
che due potenziali fenomeni da baraccone – simpatici e alla mano per modo di
dire- con l’assurda pretesa di piacere ad ogni costo, mendicando l’approvazione
generale. E col cavolo che amavamo dividere onori e gloria: volevano brillare di
luce propria ad ogni costo!
E poi, come in una partita a scacchi che si
rispetti, dove c’è sempre un colpo da
maestro all’orizzonte; le loro solitudini si annusavano, si cercavano e alla
fine si erano trovate; facendoli risvegliare all’improvviso in un mondo
parallelo, in cui quei due ragazzini si sentivano leggeri e finalmente liberi
di vivere e soprattutto di sbagliare.
E
venne il giorno in cui Diamante entrò a
far parte veramente della vita di
Alessio. E tutto ciò avvenne grazie ad un intrigo ed incastro di eventi, casuali e ad un’ alchimia voluta dal destino,
che, ironia della sorte, andava anche a coinvolgere in modo indiretto la sorella del Pangalli.
Finalmente
Diamante usciva dalle sue segrete e si mostrava, come Venere dalle acque, in tutto il suo splendore.
Della
ragazza la prima cosa che colpiva era senz’altro il suo meraviglioso sorriso
caldo ed accogliente, che sapeva aprirti il cuore anche nei momenti più bui,
era così disarmante e genuino che tu alla fine ti sentivi piccolo … piccolo come
quel cucciolo d’uomo che bramava il seno materno.
Ogni
qual volta lei lo accennava solamente per diletto o civetteria anche i suoi
occhi meravigliosamente castani non potevano fare altro che seguire questo
speciale atto d’amore.
Diamante
- a sua insaputa- era divenuta per Alessio la sua adoorabile Cassandra, dispensatrice di
possibilità e di certezze; la sua fatina buona; a volte ascoltata, a volte
ignorata o contestata. Ma lei restava sempre punto fermo del suo girotondo
esistenziale; perché purtroppo aveva un dono ed una maledizione: era tra le
poche persone che sapeva veramente leggergli dentro, non avrebbe mai potuto
guardarla negli occhi e mentirle spudoratamente; perché sicuramente lo avrebbe
“sgamato” e alla fine sarebbe dovuto salire – mestamente e con la coda di
paglia- sul carro dei peccatori in direzione di Canossa.
Se
da una parte il fatto che lei sapesse interpretare la sua anima e il suo cuore
lo lusingava non poco; dall’altra quella stessa condizione lo faceva veramente”
incazzare”, perché a volte si sentiva bloccato, sempre sull’orlo di un
precipizio : “lo faccio, non lo faccio?” eppure quella meravigliosa incertezza
in fondo in fondo gli piaceva un casino,
perché non rappresentava che una sorta di incantesimo, capace di rendere ogni
suo respiro unico e speciale.
Ancora
oggi se chiudeva gli occhi e ripensava a lei ad Alessio veniva una grande
nostalgia mista ad una profonda malinconia.
E nell’aria gli pareva propagarsi quel inconfondibile profumo di muschio bianco che
baciava la candida pelle di Diamante; oppure gli sembrava di sentire quella
timida voce dell’acerba ragazzina intonare “ la mia storia tra le dita “
di Gianluca Grignani.
Anche
se nel loro cammino di cuori affini … “strani amori” della Pausini e “
Margherita” di Cocciante erano i motivi più gettonati.
Se
il Pangalli avesse dovuto dire le prime tre cose che gli venivano in mente
pensando a Diamante direi senz’altro: lo
sguardo, le mani e la pelle profumata al latte alle mandorle.
Alessio
rammentava, come se fosse ieri, quelle sue camicette scelte con estremo gusto,
che le lasciavano dolcemente scoperto quel suo décolté, mai volgare o fuori
luogo.
La
sua Diamante sapeva vestirsi, eccome sapeva vestirsi! In tutto il tempo che si
erano frequentati non ci fu mai alcun episodio dove lei risultasse sciatta o
fuori posto. Nemmeno quando indossava quello scafandro nero durante le lezioni
di educazione fisica perdeva il suo perché e la sua femminilità.
La
ragazzina era fantastica ed unica, perché come il suo “compagno di merende”
aveva quella strana voglia di prendere la vita con quel velo di lucida follia,
che sapeva renderla imprevedibile; la banalità era bandita!
Lei
era come la più bella poesia che un giovane amante potesse scrivere, perché
bastava solo guardarla per trovare un mondo di rime.
Alessio
era rapito, drogato, beatamente succube di lei; non come uno zerbino; ma
semplicemente come un “ passionale
seguace” dell’inviolabile principio delle “affinità elettiva”. E Goethe docet!
Diamante,
nonostante lo fosse, non si reputava per niente bella, ma dentro di sé, da genuina “scorpione”, sapeva benissimo di
possedere quella certa sensualità,
capace di stuzzicare ogni tipo di prurito giovanile del “sesso forte”.
Come
ogni donna che si rispettava lei ne era davvero conscia e da brava e moderna
Circe ben comprendeva di avere dentro di sé quel potenziale adatto a sedurre,
in modo garbato, ogni spasimante, che decidesse di giocare con lei,
naturalmente alle sue regole.
Intelligentemente
maliziosa ed argutamente donna, Diamante tesseva la sua tela con non chalance;
tanto è vero che la mitica Penelope al suo cospetto non era che una povera
sartina di bottega.
Ale
la considerava e la considera tutt’ora – anche se sono quasi trent’anni che non
si vedevano e non si sentivano- la sua Musa Ispiratrice: quella presenza, quasi
mistica, in grado, con la sua luce interiore, di accompagnarlo, passo dopo
passo, nei meandri delle sue paure, nell’oscurità della sua follia.
Diamante
non era di certo una persona risolta e tanto meno una figura dall’equilibrio
conquistato e finito; nel senso che non possedeva ancora una chiave di gestione
consapevole delle sue emozioni e dei suoi sentimenti
Del
resto il fatto che si accompagnasse ad un tipo come il Pangalli e alle sue
paturnie diceva tutto. Ma insieme si erano divertiti un casino, come matti!
Avevano riso tanto alla faccia del decoro, dell’autorità e di ogni sua
oppressione.
Lei
era come il vento, grande amore di Shelley: dispettosa e fuggevole, una
creatura piacevolmente capricciosa, alla quale perdonavi quasi tutto, perché
sapeva anche essere ironica e leggera!
Insomma
lei nella mente di Alessio appariva come quell’aquilone di carta pesta, che si
teneva stretto- stretto nella mano destra, aggrappandosi a lui con tutta la
propria forza, per paura di perderlo.
Ma alla fine, però, ci si scopriva così
sfigati, perché senza un vero motivo, quel fragile aquilone di carta pesta ci
scappava dalle mani e noi tutti restavamo lì come dei perfetti cretini,
attoniti e tristi.
Diamante, in quegli anni in cui la sua femminilità
stava sbocciando; era una giovane donna
emotiva e volubile, una persona piacevolmente complicata.
Lei
purtroppo, come voleva la prassi al femminile, era la peggiore nemica di se
stessa, in quanto non accettava fino in fondo la sua fisicità. Si vedeva,
infatti, inadatta e inopportuna d’innanzi
ai fantascientifici diktat della moda del tempo, che celebravano le
anoressiche, le complessate … le infelici.
Si
stimava così poco che quello specchio diventava per lei il suo maledetto
tallone d’Achille. Lei odiava, chissà per quale strana alchimia di pensiero,
quel suo corpo dalle forme generose; che
–bando ad ogni ipocrisia gratuita- al pubblico maschile piaceva tant, perché
sapeva sedurre in modo assai sfacciato.
La sua bellezza, non passava di certo
inosservata; era inconfondibile tra la massa: la vedevi perché ti correva
incontro sbarazzina, ricordandoti gli anni cinquanta e le grandi dive
americane.
Il
vero problema di Diamante non era solamente di taglia, di forme o di paranoie
al femminile; bensì c’era pure quella infinita battaglia casalinga, che
silenziosamente combatteva con ambigua costanza contro quella madre che – in
fondo- aveva la sola colpa di essere
avvenente. Una madre giovanile, simpatica, una donna elegante e sempre sul
pezzo: persona schietta e piacevole conversatrice; una figura arguta,
intelligente e mai banale.
Purtroppo
lei percepiva nella figura di sua madre
una sorta di variabile impazzita, che andava ad intaccare in modo
subdolo la sua equazione esistenziale. Non riusciva a capire che quella inutile
disputa non poteva che portare al nulla, perché sterile e priva di senso: lei,
come donna, ma soprattutto come figlia, avrebbe dovuto semplicemente sentirsi
obbligata a costruire un fronte solido e comune!
Diamante
era puro tormento, un’anima bella ma irrequieta; che fondamentalmente aveva
come Alessio una grande fame d’amore e di approvazione. Bisognava piacere,
piacere ad ogni costo, perché si doveva entrare a pieno titolo nella massa e
non importava se il novanta per cento di quella mandria era composta da
deficienti; si doveva indossare una maschera e sputare sulla propria dignità
per sperare di essere accettato.
Morale
della favola … col senno di poi, vuoi l’età e la disillusione, ciascuno poteva
ben comprendere di quanto era stato “pirla” a dannarsi l’anima per piacere ad
ogni costo!
Diamante,
come il Pangalli, aveva semplicemente bisogno di essere compresa ed accolta.
Era come se il suo stesso essere, a volte così irriverente verso l’altro sesso,
chiedesse costantemente aiuto, lanciando un grido a quel suo piccolo mondo
antico, così bastardo e vanesio.
Era
come se volesse affermare la propria fisicità: insomma Ale, senza accorgersene,
stava assistendo alla sua meravigliosa autodeterminazione.
Quale
tenerezza suscitava in quel giovane cavaliere senza macchia la sua Diamante,
ogni qual volta tentava invano di annullarsi, per entrare nelle grazie di una
“carogna” qualunque, che le prometteva
due grammi di felicità. Non si rendeva conto di mettersi totalmente a nudo, di
abbattere piano piano quel muro invisibile che difendeva le sue fragilità.
Non
si rendeva affatto conto che alla fine tutto quel girotondo, quello sgangherato
valzer appassionato di volti, di storie,
condite di balle e di mezze verità, non era altro che una specie di “cazzotto”
emozionale, che alla fine non avrebbe fatto altro che farle sanguinare il
cuore!
Alessio
aveva vissuto in prima persona tutti gli innamoramenti di lei: da quelli più
romantici a quelli più fuori di testa. Sicuramente restava sempre alquanto
basito da tutte le volte in cui aveva dovuto conoscere il principe consorte e
avvallarne la nobiltà d’animo. Neppure il buon “Michele” della pubblicità del
brandy; oppure il signor “Del Monte”, dal Panama bianco, avevano così tanta
responsabilità.
Di
tutte le sue storie sentimentali, sfiorate o affondate negli anni del loro
sodalizio ; forse ce ne era stata una sola, che avrebbe potuto regalarle
finalmente quella protezione e quel senso di appartenenza, che in fin dei conti
lei andava cercando disperatamente.
Gualtiero
Rebecchi era un ragazzo un po’ più grande di Diamante e perfino di Alessio, di
bell’aspetto e di buona famiglia, anche se la sua cultura basica faceva davvero
a pugni con la preparazione della ragazzina.
Partendo
dal presupposto che la diversità arricchisce e non divide; allora si poteva tranquillamente sopportare il
fatto che il nostro baldo Gualtiero non riusciva a pronunciare in modo
“cristiano” la parola semaforo; oppure si poteva anche passare sopra se aveva
la sfacciataggine di credere che la
“Piccarda Donati” fosse una collega di Rocco Siffredi.
Lui
aveva quel quid per domare, con amore e soprattutto con grande pazienza, la
parte più pazza ed estrosa di quella giovane donna. Gualtiero insomma era un
tipo a posto, non un serial killer e neppure un matto uscito da una struttura.
Era,
insomma, il classico “Gegione” della porta accanto, buono come il pane e
servile fino alla nausea, ricordava il “Jeffrey di turno”, maggiordomo tutto
fare. Era quell’essere meraviglioso, che, appena si suonava la campanella
regale, correva, come un cricetino innamorato sulla sua ruota di plastica
gialla. Faceva di tutto per esaudire ogni sua richiesta. Altro che la “
Genietta spavalda “ vestita da odalisca, nella sua casa- bottiglia. Una
dilettante al suo cospetto! D’altronde, in quella situation-comedy anni 60,
questa “Genietta” aveva come sola priorità quella di servire il suo “padrone”
il fascinoso maggiore Anthony Nelson,
Il
Rebecchi l’amava da impazzire, quasi alla moda dell’Ariosto o del Boiardo;
anche se in certe occasioni poteva
apparire perfino un tantino succube di lei, insomma il classico zerbino
comprato per dieci euro al mercato rionale.
La
ricopriva di regali e di attenzioni, cadendo a volte nella trappola di una
dipendenza quasi esclusiva.
Diamante
aveva finalmente trovato quella persona rara, che viveva per lei, assecondando
ogni suo desiderio e volendole veramente bene. E cosa forse più importante era
uno dei pochi che era sempre andato d’accordo con Alessio, forse da buon
“paravento” aveva ben compreso che, per “quagliare” con la sua bella, avrebbe
dovuto – causa forza maggiore- prendersi il pacchetto completo.
A
questo punto i giochi sembravano fatti; nell’aria c’era profumo di fiori
d’arancio: mezza casa era già stata arredata! Ma come in una telenovela anni
80, “ anche i ricchi piangono o la schiava Isaura”, il colpo di scena era
servito, altro che pranzo!
E
la nostra indomabile Diamante ne era l’artefice ! a sua discolpa il fatto che
quel suo idillio era stato boicottato da un complotto giocato sul filo del
rasoio. Lo spettro più che mai tangibile di una suocera assai fastidiosa ed
ingombrante era tremendamente attivo sulla scacchiera di quel giovane amore,
tanto è vero che gli stessi equilibri della coppia andarono allegramente a
“ramengo”.
Ma
chi poteva mai sopportare quell’insaziabile megera così falsa e stucchevole?
Una
vera “cialtrona” ad honorem, una donna che possedeva la grazia di Attila:
dietro di lei la distruzione totale!
Il
suo passaggio lasciava sul campo cumuli di macerie e una moltitudine di contusi
o di feriti, senza contare le numerose carcasse dei suoi innumerevoli
detrattori … lungo quel viale del tramonto.
Dopo
questa débacle amorosa Diamante predicò il vecchio adagio chiodo schiaccia
chiodo; fino a quando sulla sua strada non era apparso lui,” una fatal
delusione”.
Di
tutte le maschere che avevano partecipato ai suoi innumerevoli balli … quella
di quest’uomo era stata sicuramente la più difficile da digerire; perché l’
aveva veramente segnata dentro: i sogni erano diventati illusione e l’illusione
… disillusione!
Una
persona forse troppo calcolatrice, che senz’altro non poteva avere veramente nulla a che fare con
l’essenza più intima di una ragazza così speciale.
Morale
della favola Diamante di lì a poco si sposò con la convinzione di un lieto
fine, ma invano, unica consolazione il
regalo più bello che una giovane donna potesse desiderare il suo unico figlio.
E’
cosa superflua rimarcare che quella unione andò a rotoli in pochi anni … le
premesse da sole avevano già detto tutto!
Ovviamente,
dopo la partecipazione di Alessio alle nozze di Diamante, si interruppe anche
il loro idillio.
Per quasi trent’anni non si incontrarono più e
tantomeno si parlarono. E la cosa più strana era che non avevano neppure
litigato, ma a causa della loro troppa confidenza, avevano trovato giusto
troncare, con naturalezza, senza rancori e senza voltarci indietro; per evitare
il solito chiacchiericcio di quella gente, che non sapeva farsi i pentoloni di
fatti propri!
Ma il loro rapporto mentale e di cuore non si
era mai interrotto, perché se era vero che la fisicità avesse una fine;
altrettanto corretto era affermare che la spiritualità fosse eterna. E così era stato: nel momento del dolore lei
c’era!
CAPITOLO QUINTO
Ma
cosa rappresentò veramente per Alessio la vicinanza di Diamante ? Una sorta di
canto della Sirena, dal quale non bisognava affatto fuggire per paura di
rimanervi impantanato; bensì occorreva predisporre il cuore ad un ascolto
genuino e sincero, perché dentro di te sapevi benissimo che era la tua favola
che stava per iniziare; una piacevole pazzia che ti aveva toccato l’anima e
alla quale tu stesso non potevi esimerti.
Era
quell’insolita occasione di una fuga assai benevola dallo spleen quotidiano; la
sua concreta possibilità di scappare da se stesso e di ritrovarsi.
Gli serviva allontanarsi da quel MOSTRO, che lo
stava dolcemente divorando fino all’osso e che non faceva altro che opprimerlo
e incattivirlo.
Sicuramente
fino ad allora non aveva mai pensato che
potesse esistere in natura il rapporto perfetto, ovvero quell’alchimia
subliminale, così intima e totale, con una persona del sesso opposto, il cui
sorriso accattivante aveva potere di
donare spensieratezza, leggerezza e soprattutto complicità.
Diamante
a volte poteva risultare simpaticamente paravento - quanto lui-nei suoi deliri
di onnipotenza … e il che la faceva apprezzare ancora di più al giovane
Pangalli; perché si plasmavamo a vicenda.
Lei
era una delle poche persone che sapeva veramente leggergli dentro l’anima e
dentro il cuore. Le bastava guardarlo un attimo per comprendere se in quel
determinato istante della giornata lui fosse vittima o carnefice.
Con
lei lui non poteva giocare sporco, in quanto fiutava la menzogna lontana un
miglio. Se solo tentava di costruire una sua balla colossale, lei lo fulminava
con lo sguardo e gli toglieva il gusto di compiere ogni sua imprevedibile
follia.
Diamante,
grazie al suo essere risoluto e apparentemente accondiscendente, aveva saputo
addomesticare quel lato crudele e spregiudicato, che un ragazzo di vent’anni,
arrogante e voglioso dei suoi cinque minuti di notorietà, coltivava con ardore;
perché voleva gridare al mondo intero la sua onnipotenza.
Con
lei Alessio si sentiva finalmente libero, scazzato e piacevolmente fuori di
testa.
Aveva
per la prima volta deposto l’ascia di guerra contro se stesso. In lui era
perfino sparito – come per magia- quel velo di apatia che lo aveva accompagnato
fino a quel momento.
E
poi, cosa più importante, aveva surgelato per un po’ di tempo quelle domande e
quelle questioni spinose che avevano importunato la sua stessa adolescenza.
Stare
con Diamante aveva per lui il sapore di
una dolce rivincita.
Lei
era come una sana droga che faceva bene al suo essere; perché lei lo trasportava nel paese dei
balocchi – era sempre su quella giostra rossa.
Lo
trascinava in un mondo parallelo, dove lui era il solo ed unico protagonista di
un inaspettato romanzo d’appendice.
Tra
loro dunque c’era una grande affinità elettiva, degna di Goethe, che andava
oltre tutto e oltre tutti.
Non
semplicemente fratellanza, amicizia o amore. Era una sorta di meraviglioso
rimbambimento cosmico … di alleanza solenne, silenziosa e strategica tra due
anime tremendamente affini e maledettamente sole.
Non
vi era un vero senso a tutto ciò o un
fine ben determinato a questo assurdo e piacevole gioco al massacro.
Tutto
ciò che vivevano insieme era frutto di una dolce pazzia; un disegno al di fuori
e al di sopra di loro due.
Forse
questa corrispondenza di sensi dipendeva dal fatto che alla fine della fiera
loro non erano altro che due stupidissimi sassi gettati nel nulla della vita
dalla stessa fottutissima mano!
Alessio
ricordava ancora molto bene le loro seghe all’università e quelle fughe
strategiche in città alta … o a San Vigilio.
A
lui mancano da morire i loro aperitivi sul Sentierone, quando cazzeggiando
discorrevano di tutto e di niente.
Ma
ciò che mai poteva scordare era il suo profumo, la sua pelle morbida e quei
grossi occhi castani che cercandolo gli chiedevano silenziosamente asilo.
E
tante volte rimpiangeva quel periodo e quel pullman, il cui marciare lo faceva
addormentare appoggiato a lei … sentendosi
finalmente accolto, avvolto e protetto.
Di
Diamante, Alessio possedeva ancora quella “Smemoranda” fine anni novanta, che
lei con cura aveva coperto con una fotografia di una indimenticabile Claudia
Schiffer. Qui la ragazza sognava e si raccontava, tra fotografie, dediche e
pensieri figli di quel tempo.
In
una notte come quella lui stava tentando disperatamente di non soccombere alla
paura di riconoscersi come uomo … lui aveva quel folle desiderio di prendere
tutti i pezzi del suo vissuto e di ricomporre il suo puzzle esistenziale. Lui
aveva il diritto di conoscere finalmente chi era, da dove veniva e soprattutto
il senso di sé!
Quel
giovane uomo era sempre stato fedele “vassallo” di ogni forma di espressione
artistica: dalla musica alla pittura; dalla cucina alla scrittura.
Nell’arte
del cucinare lui aveva sempre visto una specie di melodia tantrica, capace di
incantare,sedurre e conquistare. Era come se giocasse un’infinita battaglia di
sensi, di gusti e di passioni.
Lui
in cucina era avvolto dall’ovatta di una silenziosa e proficua orgia creativa;
in cui faceva l’amore con gli ingredienti, che mischiava in mille e mille
perversioni … con la consapevolezza di ingannare la lucidità intellettuale di
un gentil sesso assai attratto!
Tra
le innumerevoli ricette di sua invenzione; il Pangalli andava particolarmente
fiero per la sua “Didone Salat”, un piatto estivo e colorato:”
·
“500
gr. di pipe
·
Un
vasetto di salsa tonnata
·
Una
scatola di piselli
·
Una
scatola di mais
·
2-3
cucchiaini di capperi sotto aceto
·
Mezza
cipolla tagliata fine
·
Sale,pepe
q.b.
·
All’occorrenza
un goccio di olio d’oliva extra vergine
Dopo aver scolato
la pasta e dopo averla raffreddata sotto l’acqua corrente, prendere tutti gli
ingredienti e scaraventarli senza pietà in una zuppiera assai capiente:
condire, mescolare e poi godere.”
Mentre, per
quanto concerneva la scrittura, Alessio vedeva una naturale valvola di sfogo a
tutto quel suo disagio emotivo che piano piano esplodeva dentro di lui. Era
come se nella sua anima si prendessero a “cazzotti” demoni di diversa fattura;
piccoli “bastardelli” ruffiani che cercavano un posto al sole.
E lui – “povero
Cristo del Terzo millennio”- piegato sulla sua gobba per portare la sua croce;
scappava, come un coniglio, dalle atrocità di quella contingenza, sperando di
raggiungere al più presto il suo “Bengodi”; finalmente libero di essere se
stesso nel bene e nel male!!
Lui era
certamente assai affezionato alla figura del “Conte Alexander Von Blumenstadt”;
gentil retaggio della sua penna ispirata. In questo personaggio di carta pesta,
infatti, il Pangalli vedeva la
deflagrazione totale dell’illusione umana: la supponenza di voler apparire
invincibili ad ogni costo, per poi alla fine riscoprirsi un “bluff” senza
precedenti!
Alexander aveva
compreso a sue spese che la vita non era niente di così intrigante; era
semplicemente una grande truffa ordita dal destino. E lui non era altro che uno
stupido burattino i cui fili venivano mossi dal venticello della “sfiga”. E allora che fare? Indossare
la maschera che più ti si addiceva e “fottere” te stesso, fingere di essere
felice anche se fuori piove, intanto con cinque euro ti compravi sempre un buon
ombrello al mercato!
E così Alessio,
in quella notte senza fine, aveva riesumato anche quella sagoma di inchiostro,
che, alla fine dei giochi, aveva insegnato a lui a concepire la vita come
un’infinita ricostruzione di un puzzle a più facce, dove bisognava augurarsi di
trovare tutti i tasselli; altrimenti si avrebbe perso il senso di sé e della
realtà!
“Quella casa
sulla collina, ricordo di giorni felici, era oramai una dimora spenta, un luogo
di un passato ameno, malinconicamente lasciato addormentare nelle piaghe di un
dolore lacerante.
Vedevo ancora negli occhi di un bambino curioso quella coupé rossa che le
andava incontro con sospetto.
Le andava incontro a passo tardo e silenzioso!
Alla guida c'era lui ; il conte Alexander Von Blumenstadt, ultimo rampollo di
una famiglia aristocratica della nobile Prussia, caduta in disgrazia dopo il
secondo conflitto mondiale.
Chiunque
l'avesse conosciuto; di Alex -- come lo chiamavano affettuosamente in famiglia
-- non avrebbe potuto che dire: "un gradevole giovane dallo sguardo perso
nel vuoto.
Eh sì! Il
giovane nella sua armoniosa estetica poteva rammentare ad un occhio alquanto
scaltro la perfezione di una scultura di Donatello oppure la patinata eleganza
di un personaggio di un quadro di Monet.
Ma quanti incrociavano i suoi occhi
verde smeraldo ne rimanevano tremendamente soggiogati: dolore e rabbia si
celavano in quell'animo ancora acerbo.
La coupé rossa a fatica aveva raggiunto
il suo traguardo ed Alexander era sceso.
Per vincere quella strana sensazione di
impotenza si accese una bionda...
Del resto il giovane e la sua famiglia avevano lasciato quella casa alla fine
degli anni settanta, quando il padre Humbert Joseph, famoso direttore
d'orchestra, aveva spostato il suo interesse artistico nella capitale francese.
Se da un lato Alex provava una sorta di
fastidio cosmico, quasi come se sentisse la sua stessa fragilità danzare
sull'onda dei ricordi, dall'altro lato coltivava in sé un forte desiderio di
varcare il cancello di quel giardino.
Lui doveva sapere; lui in un certo senso aveva l'obbligo morale
di riabilitare agli occhi dell'opinione pubblica il nome dei Von Blumenstadt.
Il ragazzo prese dalla tasca un mazzo di chiavi e senza esitazioni aprì quel
cancello, che cigolava verità mai dette. E mentre percorreva l'austero viale,
vegliato da quell’esercito muto di cipressi; un'improvvisa e sottile folata di
flash back iniziò a sedurre la sua mente confusa.
Nel 1975 aveva quattro anni e suo
fratello Gedeon un anno in meno.
La mamma Juliane, discreta pittrice, era
là, in compagnia di Georg, l'anziano giardiniere, e insieme stavano potando
quel roseto che era stato posto in segno di profonda devozione alla statua
della Santa Vergine. E loro i due fratellini correvano spensierati tra le
braccia del vento.
Il flusso di quei ricordi correva in modo così
incalzante che lo stesso Alexander non si era accorto di essere giunto ormai
all'interno della casa. Si sentiva come
una sfortunata pedina su di una sgangherata scacchiera.
Nel corridoio delle grandi occasioni
quel lampadario a pendenti di cristallo boemo, sebbene sbiadito dal tempo, gli
ricordava una dolce evasione: come era bella Juliane in quel vestito di seta
nera, mentre danzava scalza lungo tutto quel perimetro, approfittando di quel
valzer viennese, scandito con passione da quelle mani paterne che accarezzavano
i tasti di un pianoforte a coda! E loro … i piccoli Von Blumenstadt guardavano
con gli occhi dell'amore!
Là sulla parete destra di quell’immensa
sala si mostrava fiero quel ritratto del
Conte August Maximiliam e della consorte, la contessa Margarete Gertrud
Risendorf, i nonni di Alex e di Gedeon, purtroppo mai conosciuti... ma della
loro triste storia si sapevano tutto.
In una sera d'autunno del 1916 la
contessa Margarete era fuori in giardino e davanti alla statua della Vergine
implorava la fine della guerra.
All'improvviso il cancello si aprì e due
sottotenenti, gentile omaggio dello Zio Sam, violarono, senza ritegno,
l'animo della donna e non solo.
Tutto durò cinque squallidi minuti di
pura follia umana; Margarete era stesa mezza nuda su quel sasso duro e anonimo.
Spalancò gli occhi e li portò verso la statua di Maria facendosi il segno della
croce.
Rientrò in casa e conservò nel suo cuore il
suo immenso dolore di donna ferita.
E che dire del conte Maximiliam,
l'austero militare, orgoglioso della sua divisa, aveva compreso che l'aquila
regale aveva ormai smesso di volare e che mestamente si sarebbe assopita nelle
piaghe sanguinanti di una storia senza senso.
Così, non conoscendo l'inquietante segreto
della moglie e amandola sopra ogni cosa, riuscì ad ottenere, per vie traverse,
i documenti necessari, affinché i suoi cari potessero rifarsi una vita nella
vicina Svizzera.
E in questo luogo la contessa Margarete non solo dovette crescere da sola il
piccolo Humbert ma anche svezzare quel figlio di un peccato mai commesso!
E il conte, suo marito, in
Germania, uscì di scena da eroe d'altri tempi:
indossò la divisa di gran gala, quella dal guanto bianco; si sistemò i baffi
alla moda del Kaiser; si girò verso il quadro del Fuhrer per l'ultimo saluto e
dopo questo gesto si sparò in bocca.
Il giovane
Alexander salì quindi la scala a chiocciola, la quale collegava il piano di
rappresentanza con la parte più intima della casa.
Alex entrò nella
sua stanza da bambino, quel luogo di fate e di maghi, nel quale interagiva con
giochi spensierati con il piccolo Gedeon.
Era tutto
rimasto come allora, la stessa disposizione dei mobili, la stessa atmosfera di
burattini e balocchi.
Ed ecco Theodor il piccolo orsetto di peluche
di Gedeon, gettato là in un angolo vestito d'oblio e ricoperto da una vistosa
coltre di polvere.
Quell'ultimo pomeriggio dell'anno 1976 Gedeon
e Alexander erano saliti, incuranti di un pericolo alquanto reale, sopra la
grande magnolia che cingeva in segno di protezione metà dell'edificio
abitativo; quando il primo mettendo il piede in fallo precipitò nel vuoto;
invano il secondo poté cambiare quel folle disegno.
E così
all'inizio del 1977 la famiglia Von Blumenstadt lasciò la campagna berlinese
per rifugiarsi nel caos parigino.
E cosa restò di
quella tragedia? Una madre priva d'affetto per il figlio rimasto, una donna che
consumava il suo senso di colpa nella solitudine di una bottiglia. Un bambino
introverso e sballottato da un collegio all'altro. Un padre che cercava
risposte tra le lenzuola di una puttana qualunque.”
Se chiudeva gli
occhi Alessio Pangalli vedeva ancora
quella coupé rossa schiantarsi a folle velocità contro il cancello di quella
maledetta casa sulla collina.
Rivedeva nei
suoi sogni il volto tumefatto del povero Alexander; non era più arrabbiato,
sorrideva sereno... finalmente era felice.
Alessio era
talmente preso dal suo essere artista a tutto tondo che a volte – chiudendo gli
occhi- immaginava di essere dentro i romanzi o alle opere a lui più care per
contenuto, insegnamento o emozione: come se volasse sulle ali del suo Pegaso ed
attraversasse quella porta magica che divideva il Reale dall’Irreale.
Era come se la
scrittura – insomma- fosse davvero quel
meraviglioso suo tappeto magico, capace di condurlo ad esplorare nuovi mondi …
altre dimensioni; in cui sognare non era un lusso, ma un atto del tutto
naturale! L’ancora di salvataggio ideale per resistere alle innumerevoli
ingiustizie della vita e non andare a fondo definitivamente.
E in quella
giornata strana il Pangalli si sentiva protagonista assoluto del “Fuoco”; uno dei romanzi meno conosciuti e forse poco apprezzati
del vasto repertorio dannunziano.
Il Fuoco era il meraviglioso
manifesto che trattava in maniera assai esplicita la teoria e la poetica del
superuomo,
un’ opera certamente molto elegante e diretta nelle sue mille sfaccettature;
dove la stessa estetica e contenuto andavano a braccetto in una sinfonia di
emozioni altalenanti.
Per Alessio quello stesso titolo, quella stessa storia e soprattutto le
molteplici indiscrezioni, che avevano preceduto la pubblicazione dell’opera,
facevano dunque pensare che quel romanzo fosse stato scritto per raccontare
l’amore etereo di cui tutti all’epoca parlavano; quello tra D’Annunzio e la
divina; l’attrice per eccellenza Eleonora Duse.
E il Pangalli sognava di essere il protagonista del romanzo, quel tale Stelio
Effrena. Un’anima spinta dal sacro fuoco dell’arte che desiderava scrivere una grandiosa opera
letteraria, che avrebbe di certo conquistato il favore dell’opinione pubblica e
soprattutto quella del tempo!
Sarebbe dovuto essere
quel capolavoro assoluto, nel quale l’artista stesso avrebbe trovato la chiave
giusta di fondere con grande armonia: poesia, musica e danza, quest’ultimo
elemento essenziale per creare una sorta di nuovo teatro. Ma purtroppo
l’ambizioso progetto era destinato al più misero fallimento, poiché esistevano
di fatto alcune forze negative che si opponevano allo stesso eroe.
Una di queste oscure
forze prendeva il nome di “Foscarina Perdita” ovvero la più grande attrice del
tempo , una donna bellissima ma complicata, perché non risolta del tutto.
Una donna, folle
d’amore alla maniera di una moderna “Didone”,
che, con il suo smisurato amore,a volte nevrotico e possessivo,
ostacolava non poco l’ eroe nella sua impresa.
Il romanzo si
concludeva con il sacrificio inaspettato di Foscarina, che, alla fine, vinta ed
affranta dagli eventi, lasciava libero
Stelio.
Ma nonostante questo sacrificio, il protagonista
non sarebbe riuscito affatto a portare a compimento questa sua grandiosa opera;
in quanto, il dolore lancinante dell’abbandono totale della sua amata, aveva
provocato in lui una specie di blackout creativo, un tremendo blocco emotivo,
che aveva sicuramente messo alla prova il suo essere uomo- artista ed amante.
E Alessio
rappresentava in sé tutte le caratteristiche peggiori di Stelio e Foscarina. Sicuramente
non era un uomo facile da amare, supportare -o per meglio dire- sopportare.
Era capace di grandi
slanci passionali, donandosi completamente se ne valeva la pena; ma era
scorbutico, nevrotico ed asfissiante nei momenti in cui sentiva scemare l’interesse
del partner.
E poi era volubile,
capriccioso … teatrale fino alla nausea, la sua megalomania usciva da tutti i
pori!
Era la classica “diva
sul viale del tramonto”, che nonostante tutto aveva ancora la sfacciataggine di
tirarsela.
Come sei quei riflettori
fossero ancora puntati tutti su di lei, in una luce quasi mistica!
Non aveva ancora
capito, Alessio, di essere un buffone da quattro soldi, sempre sull’orlo del
precipizio; una triste macchietta di ciò che era stato anni prima, durante i
suoi spettacoli più riusciti!
A volte si sentiva
anche come quel vecchio clown da circo, rugoso e claudicante, che,
imperterrito, si affannava a calcare ad ogni costo quel palcoscenico sotto il
tendone della nostalgia.
E non si rendeva
neppure conto che ormai era “ demodé”; scontato e privo di mordente. Era una
specie di patetica parodia di se stesso e certamente le sue battute … le sue
freddure non erano altro che una colossale farneticazione di umilianti déjà vu.
Ma Alessio più si
guardava dentro; più si scopriva identico ai suoi personaggi letterari
preferiti e in questo caso si sentiva vicino e uguale all’anonimo regista
squattrinato e privo di talento del romanzo di Moravia del 1971 dal titolo “Io
e Lui”.
Un libro che fu
accolto dalla critica dell’epoca con un certo snobismo e pregiudizio,
sicuramente immotivati; in quanto si storceva il naso sulla scabrosità
dell’argomento.
Ma non si poteva
esimersi dal valutare questo romanzo, alienandosi da banalità e da facili
giochi di doppio senso di infimo gusto. Occorreva quindi mantenere una certa
lucidità intellettuale e prendere in considerazione l’originalità di questo
contenuto.
Ed Alessio – da bravo
studioso quale era – lo sapeva benissimo!
Per questa ragione,
in queste pagine lui vedeva e viveva una vera e propria conversazione “
freudiana” dell’umano inconscio; così da provare tutte le emozioni e il pathos,
che lo stesso miserrimo protagonista provava sulla sua pelle, ogni qualvolta
aveva a che fare con il suo tracotante organo genitale, sempre impegnato nella
spregiudicatezza dei suoi mille atti libidinosi.
Si può dire quindi
che il Pangalli si era catapultato in uno spassoso “j’accuse” sulla sua
mediocrità fisica e spirituale di individuo.
E, poiché aveva
tentato, come un mantra irrinunciabile, di mostrare al mondo circostante la sua
forza e la sua virilità; aveva sempre
ignorato la sua bellezza di “ persona” pulsante e pensante. Aveva quindi
puntato, in più occasioni della sua sgangherata giovinezza, solamente sulla
potenzialità della propria prestazione sessuale, non accorgendosi in questo
modo di aver sfiorato – il più delle volte-
il ridicolo e peggio ancora di
essere caduto nella più bassa forma di pietismo generale.
Aveva ben compreso
che per una buona parte della sua vita aveva vissuto di istinto, caccia e
soprattutto fame di sesso. Per lui la donna non doveva che rappresentare una
sorta “di silenzioso schiaccia pensieri”, capace di donargli brividi caldi
sulla giostra dei sensi.
Al giovane Alessio
non fregava niente di farfalle nello stomaco o di violini zigani nelle
orecchie; lui doveva solo quagliare ed arricchire il suo museo delle cere!
La sola idea di
famiglia lo faceva rabbrividire; perché per lui il figlio non era altro che un
cecchino pronto a tradirlo alla prima occasione buona e a fargli la pelle senza
preavviso. Un cane, un gatto, un coniglio e perfino un pesce rosso si sarebbero
dimostrati migliori! Sicuramente per fedeltà, amore e soprattutto per lealtà!
Ma da quando aveva
conosciuto Diamante tutto era davvero cambiato per Alessio.
Infatti quel giovane”
vitellone “, arrogante, tronfio e pieno di sé degli anni della spensieratezza,
aveva lasciato, in modo definitivo, il posto ad un Pangalli certamente più
“uomo” che burattino nelle mani della più cruda ovvietà.
Diamante era riuscita
là dove la figura materna … la scuola e soprattutto la società avevano fallito
miseramente; perché forvieri di troppa accondiscendenza e latitanza.
La ragazza, infatti
da sola, era stata in grado di conquistarlo, con la determinazione dei suoi
vent’anni e con la dolcezza d’azione, che sempre l’aveva contraddistinta.
Diamante era quel tesoro ancora grezzo
che mai avresti sperato di poter incontrare nella tua vita!
Quel suo essere
piacevolmente fuori dalle righe; un punto di colore in un quadro nero come la
pece, conquistava a tal punto da renderla un’anima unica tra i comuni mortali.
Silenziosamente lei
si poneva fuori da ogni fastidiosa ovvietà precostituita ed era per questa
semplice ragione che sapeva prendere Alessio ed infondergli una nuova voglia di
vivere.
E così il Pangalli,
senza rendersene conto, era stato per la prima volta educato all’amore;
sentimento inteso come mistero di rara bellezza e di genuina verità.
Grazie a Dio aveva
proprio lui tolto finalmente la sua maschera da super eroe “nietzschano “ ed
era sceso a patti con i suoi stessi simili, abbandonandosi alle emozioni, alle
vittorie e alle sconfitte del cuore!
CAPITOLO SESTO
Alessio Pangalli si era
ormai reso conto che quella nottata fuori da ogni logicità lo stava
letteralmente consumando, del resto fino a quel momento non si era mai preso la
briga di fare veramente i conti con se stesso. Aveva sempre soffocato con
grande freddezza ogni minima sbavatura del suo spigoloso carattere; aveva
nascosto in modo assai imbarazzante ogni sua grande paura e ogni sua piccola
fobia.
Finalmente quel buio
profetico lo aveva trascinato con una certa prepotenza sulla lastricata “strada
della luce”; era come se avesse vinto una specie di terno al lotto, che lo
aveva portato ad un meraviglioso ricongiungimento con se stesso. Aveva dunque
ben compreso che anche lui era creatura dell’universo e come tale aveva il
sacrosanto diritto di esistere e di scrivere a pieno titolo il suo romanzo
esistenziale.
Alessio aveva vinto la
sua guerra personale contro l’esercito invisibile dei suoi demoni più atroci …
gli aveva sconfitti uno ad uno ed ora poteva annunciare al mondo intero che
aveva ritrovato “ la sua BUSSOLA” vitale.
Non era più l’ ALBATROS
di Beaudelaire, lo spauracchio di quella ciurma- canaglia, che, a calci e a
pugni, lo massacrava senza pietà, seviziandolo nei pensieri e nel cuore.
Ora si sentiva leggero
e felice … era come se fosse rinato dalle sue stesse ceneri! Si sentiva ebbro e
fiero di sé; provava le stesse sensazioni allucinate che il “ vecchio Marinaio”
di Coleridge giocava nella sua ballata. Era stato capace, grazie ad una forza
di volontà incredibile, a tenere testa – con onore- a quel killer silenzioso,
abominevole mostro che gli rodeva dentro.
Questa volta
avrebbe mancato davvero poco; perché il
povero Alessio mettesse un piede in fallo e cadesse rovinosamente nel baratro!
Fortunatamente tutto
ciò non si era verificato, perché in quel suo fatidico cinquantesimo compleanno
una mano misteriosa lo aveva raccolto lungo quella strada tortuosa del DUBBIO e
lo aveva spronato a seguire quella luce che piano piano lo avrebbe certamente
riportato ad una sana ed onesta connessione con se stesso e il suo piccolo
mondo.
Quel suo piccolo mondo
“antico” che rappresentava senz’altro la parte più difficile di un romanzo esistenziale
ancora tutto da scrivere .
Erano giunti, come fulmine a ciel sereno, quei
maledetti anni novanta, preludio di quello schifo che sarebbero stati poi gli anni duemila.
Gli anni
novanta di fatto non avevano che ucciso definitivamente l’idillio del decennio
precedente; accompagnando l’essere umano alla resa dei conti.
Questi anni massacro non segnarono altro che una
caterva di sfighe, una dietro l’altra; tanto è vero che anche l’adorabile
vecchina di Windsor – pace all’anima sua- aveva fatto le macumbe, affinché
quegli anni nefasti sparissero dal suo calendario.
E come darle torto … “Dio salvi la Regina!” … i suoi figli avevano sbroccato di brutto.
Perfino il real consorte, tanto simpatico quanto
pestifero, à la mode del Dennis cinematografico, ogni qual volta che apriva
bocca, lasciava sulla sua strada un cadavere illustre, e ciliegina sulla torta
… un uomo nudo era riuscito a raggiungere
la nobile alcova della Betty super star!
Se da una parte ci si masturbava il cervello con le
aristocratiche beghe della “ Famiglia Mezzil versione the delle cinque’’; ci
pensava il Saddam, a giocare la carta “ del mondo è mio”.
In parole povere l’esoso, l’arrogante di turno si
metteva a dare di matto, decidendo di
fare una capatina poco cortese nel vicino Kuwait. E i “buoni Russi’’, gli amici
di DESTRA, devono aver preso il suo sudore, visto e considerato che ancora oggi
adorano giocare a risiko sulla pelle altrui! Ma non erano i Tedeschi i brutti e
cattivi per contratto?
E non si poteva neppure dimenticare i Balcani che,
come polveriera fuori da ogni controllo, esplodevano nella loro rabbia; mentre
la vacca umiliata impazziva.
Ma cosa faceva il Bel Paese che di porcherie era
maestro? Con lacrime da coccodrillo, sotterrava – per convenienza politica,
persone come Falcone e Borsellino. Naturalmente tacendo, nascondendo ed
insabbiando; perché cavolo sarebbe stato
davvero disdicevole che per una volta ad Amatriciana City si avesse avuto le
palle dire una volta tanto la verità …
Ustica docet!
E cosa faceva di bello il baldo Alessio Pancalli? nel
mentre questo marasma andava lentamente manifestandosi; lui si rivoltava, senza
pietà, contro quel bimbo felice, patetico leitmotiv Pascoliano.
Lo narcotizzava con rabbia, vomitandogli addosso tutta
la sua inquietudine, tutti i suoi fallimenti; tanto che il poverino oramai
andava dolcemente addormentandosi in
lui, vegetando nauseabondo.
Nel 1991, a soli 65 anni, se ne era andata sua nonna,
una donna colta ed elegante, dalla quale aveva ereditato l’amore per la
scrittura e per la letteratura.
Se ne era andata in silenzio, come del resto aveva
sempre vissuto, seguendo alla lettera quel diktat folle che quella piccola
città di provincia, in cui era nata e alla quale era legata, le aveva sempre
inculcato.
Aveva supportato e soprattutto sopportato un compagno
di vita che, nonostante l’avesse amata veramente, aveva delle colpe e delle
mancanze nei suoi confronti; che sicuramente avrebbero leso la sensibilità e la
dignità di qualsiasi donna.
Con la sua
vicinanza e i suoi silenzi, aveva aiutato suo marito nella sua realizzazione
personale, rispondendo a pieno titolo a quel detto “ dietro un uomo ci sta
sempre una grande donna.”
Di certo lei non si era meritata affatto quello che la sua breve vita
le aveva offerto: pugnalate nella schiena; abbandoni e tradimenti ad ogni
livello. Ma nonostante tutto aveva vissuto a testa alta, mostrando sempre la
stessa classe sia nella buona sorte che nella sfiga più nera!
L’unica cosa che consolava Alessio era che sua nonna non si era mai lasciata abbindolare da quel vecchio adagio
ignobile, che predicava come
l’istruzione dovesse essere ad appannaggio esclusivo del mondo maschile;
perché alla donna bastava una scopa e uno straccio per essere felice.
La scomparsa di
sua nonna lo aveva lasciato stordito, perché era la prima volta che vedeva la
morte passargli vicino.
E poi era
rimasto confuso dal fatto che lei avesse
lasciato questo mondo perennemente in silenzio, in punta di piedi, come del
resto era suo solito fare. La sua caratteristica pregnante era: due passi
indietro e camminare nell’ombra, senza mai lamentarsi dello schifo che la
circondava e ingoiando mille e mille bocconi avvelenati!
Morì, in un modo inaspettato, mentre stava lavando i
piatti, nessuna avvisaglia, un tonfo e tutto era finito!
Si può dire che da bravo soldato era morta sul campo
di battaglia! La sua scomparsa mi ricordava quella di Goethe, lui non morì con
un piatto in mano, ma stringendo la sua adorata penna,accasciandosi su quel
foglio ancora vergine.
Tutti si ostinavano a dire che lei fosse morta in modo
naturale a causa del suo cuore che faceva le bizze.
Ma Alessio non aveva mai creduto a questa versione di
comodo, a questa bella leggenda metropolitana.
Per lui lei era stata deliberatamente assassinata da
questo Paese balordo ed insensato, retto da quelle sue assurde leggi TALEBANE,
degne di essere segnalate ai posteri per la loro imbecillità e per la loro
ignobile capacità di umiliare il deficiente di turno. E la cosa più fastidiosa
per il Pangalli era che sua nonna,
nonostante tutto, andasse sempre fiera e orgogliosa di quello Scarponcino
logoro e ruffiano.
La sua amata Italia, sempre pronta a mettertela in
quel posto, per mano del suo Sicario, un certo amico Fritz, infatti l’aveva tradita, umiliata senza ritegno. Le aveva rubato – oltre che
alle sue certezze - tutto quello che in anni di sacrificio aveva costruito con
suo marito e suo figlio.
Grazie all’intelligenza e alla modernità delle leggi
barbare targate anni 80 e di qualche funzionario di discutibile moralità,
ingrassato a dovere dal suo vorace “magna- magna”, lei si era vista marchiare, additare e
scansare.
Purtroppo non aveva sopportato il peso dell’intera
situazione, soprattutto non aveva retto al voltafaccia dell’inqualificabile
parterre a cui era abituata, che, quando le vacche erano grasse e potevano
essere munte con allegria, non si sapeva più come scrollarselo di dosso;
mentre, quando l’acqua diventava torbida
ed imbevibile … si assisteva con sdegno ad un vigliacco “exodus”!
Ma diciamocela tutta per Alessio anche
il 1992 non fu di certo una buona annata, perché purtroppo si replicava con il
tema della morte, come in un gioco al massacro, le cui porche regole ti
spaccavano dentro, e tu purtroppo restavi basito e non ti riconoscevi più.
Ti sentivi come
Mork di Ork, un marziano qualunque piovuto dal cielo, che cercava invano di
fuggire dal tutto.
In una
maledetta notte di novembre, vestita a candide nozze con quella verginale nebbia,
si addormentava per sempre il suo migliore amico, quello delle elementari,
quello che ti aveva insegnato il valore dell’amicizia, della condivisione e
della appartenenza.
Aveva perso il controllo – per un malore- di quella
sua utilitaria assassina, che lo aveva portato ad una inesorabile e malinconica
uscita di scena.
Quanto era stato bastardo e perfido il maledetto
destino, di lì a poco JACOPO avrebbe
compiuto vent’anni, un lavoro e una compagna di vita gli permettevano di
sognare il suo domani; che purtroppo si era trasformato in una utopia lunga
un’eternità!
Che storia ! il
più giovane della sua classe sarebbe stato
anche colui che avrebbe dovuto congedarsi per primo da questo manicomio all’ italiana.
Alessio seppe la notizia della morte di Jacopo
attraverso una scarna e circostanziale telefonata, fatta per grazia ricevuta da
quella ex compagna … la secchiona della combriccola.
Al momento rimase frastornato a tal punto da
accogliere l’evento con estrema freddezza e con un disgustoso distacco.
Tanto da apparire all’ esterno, sempre pronto a
pontificare – farsi i cavoli propri un optional!- come l’essere più immondo ed
insensibile in circolazione.
Come se il suo io mettesse in atto il blasonato motto
anglosassone: niente lacrime, siamo inglesi.
Ma la verità era una sola che proprio lui non era
ancora pronto ed educato alla cultura del dolore, nonostante era il secondo
lutto che lo perseguitava.
A vent’anni era così cretino, arrogante e sbruffone,
da pensarti immortale, da credere di possedere quella forza necessaria per
fottere il destino, manipolandolo a proprio favore.
Aveva la pretesa assurda di autoproclamarsi, in preda
alla sua boriosa follia, re del mondo e di spaccare tutto, cambiando e
migliorando i connotati di ciò che lo circondava.
Balle solamente balle! Era solo un “pistola’’
qualunque; un malato patologico che pensava in grande per poi risvegliarsi
nella cacca della sua vanità.
Partecipò alla cerimonia di quell’ultimo SALUTO in
quella chiesa dall’anima barocca … e nonostante brulicasse di gente in quel
frangente di lutto, la CASA di DIO gli appariva vuota e bugiarda.
Di quella giornata, così bigotta e telecomandata,
ricordava ancora il dolore tagliente, tangibile e compatto, di quella povera
madre straziata dalla più grande crudeltà della vita.
Non aveva rubato, non aveva spacciato, non si era
prostituita o fatta e tanto meno non si era
macchiata con l’onta di un assassinio. Eppure era stata punita in quel
modo subdolo e vigliacco. Non vi era
castigo peggiore per quella madre di sopravvivere alla propria creatura. Era la
sconfitta del cuore e la morte dell’anima!
Lei
fondamentalmente se ne era andata insieme al suo bambino; perché se fisicamente
lei era rimasta attaccata al quotidiano, spiritualmente era volata via.
Alessio in quell’occasione di profondo dolore riuscì
solamente a porgere le sue fredde condoglianze, perché se avesse tentato di
aggiungere altro avrebbe solamente violentato il dolore dignitoso di quella
famiglia.
Uscito dalla chiesa si trovò catapultato suo malgrado
in un ginepraio di falsità, una sciarada di comportamenti artificiali, studiati
a tavolino per fare della bieca sensazionalità in quel nefasto evento.
Insomma THE SHOOW MUST GO ON … tutto doveva fare
spettacolo, soprattutto in una piccola città di provincia di circa 35 000
sopravvissuti alla noia e al pettegolezzo gratuito, dove l’importante non era
essere, ma apparire!
Di tutta quella vegetazione di persone inutili non
riusciva più a riconoscere nessuno dei suoi ex compagni delle elementari, gli
sembravano alieni sbarcati dal nulla.
Si accese per la gioia dei suoi polmoni una sigaretta
e si mise in disparte, in un cantone lontano dall’ovvietà, tentando di metabolizzare al meglio quella
rappresentazione distorta della realtà.
Gli faceva veramente ribrezzo sentire quelle grasse
bocche sporcare il ricordo di uno di loro con quella vergognosa accozzaglia di
frasi fatte, così circostanziali e sterili.
E quando vide la macchina che accoglieva la salma lasciare lentamente quel piccolo spiazzo
davanti alla chiesa, li sì che realizzò che Jacopo non c’era più e che un’
epoca ormai si era dissolta per sempre … come neve al sole!
Piano piano il Pangalli cominciava a sentire freddo
dentro e allo stesso tempo percepiva il calore di quelle lacrime, che
iniziavano a scendere copiose su quelle guance pienotte.
Aveva ben
compreso, a malincuore, che forse la parte più bella di sè, quella più vera,
più sincera e libera, se ne era andata in modo definitivo con lo stesso amico
di banco.
Jacopo aveva senz’altro rappresentato quello spicchio
di vissuto che si era concretizzato in
una bellissima fanciullezza; dove si poteva di certo affermare di aver
toccato il cielo con un dito e di aver abbracciato la vera felicità, quella che
veniva una volta sola nella vita.
E così l’ IO di Alessio aveva mestamente chiuso un
ciclo e si apprestava ad una sorta di rinascita interiore, doveva prepararsi a
compiere un lungo viaggio per inseguire nuovamente il suo NON IO
corrispondente.
Insomma aveva l’ obbligo morale di cercare e di
crearsi una nuova identità.
Ricordare quegli eventi spiacevoli era per Alessio
come riportare a galla tutto quel pattume che aveva, nolente o volente, portato
con sé fino a quel suo giro di boa dei suoi primi cinquant’anni.
E quella notte, davvero speciale, andava presentandosi
a lui come un inaspettato e dolce appiglio per far pace finalmente con il mondo
intero.
Quel mondo che a lui andava stretto; perché non aveva
mai potuto viverlo fino in fondo e come voleva; aveva indossato troppe maschere
per compiacerlo, violentando, inevitabilmente, la sua testa e il suo cuore.
Era stanco; demotivato; troppo incazzato dentro per
continuare - fino alle calende greche- quella sua assurda guerra quotidiana
contro la stupidità e l’ipocrisia imperante.
Aveva quella voglia matta di una nuova musica, magari
più leggera e soprattutto meno ruffiana!
E quella meravigliosa luna, amica pallida, malinconica
vestale, avrebbe, senz’altro avvallato l’inizio di un canto nuovo.
Oramai Alessio aveva capito fin troppo bene che il
suo “ IO PRECEDENTE’’ era morto
definitivamente, per propria mano. Che pugnalata si era dunque dato… Quanto
sangue scorreva in quella resa dei conti senza precedenti!
E mentre faceva ciò gli vomitava
addosso tutto il suo rancore e tutto il
suo disprezzo … quanta rabbia aveva provato contro quell’ IO BASTARDO che prima lo aveva illuso con moine e carezze
di ogni sorta; e alla fine lo aveva “ buggerato’’, portatolo quasi alla follia.
Jacopo aveva rappresentato, senza ombra di dubbio, per
Alessio, il suo primo ed unico vero amico; la persona che aveva vissuto le sue stesse esperienze;
quell’animo prezioso che lo aveva sopportato semplicemente per quello che lui
stesso era.
Insomma era
quel miracolo inaspettato e genuino che lo supportava –
esortandolo- in tutte quelle sue follie
dell’infanzia!
Ed ironia della
sorte non esisteva persona a quel tempo, capace come Alessio di fare della
pazzia [ovviamente quella sana … creativa e non malata e distruttrice] una
sorta di priorità di vita. Perché vivere di perfezione ed imposizione significava
rinunciare a priori alla propria unicità, dando un calcio definitivo alla
medesima dignità della persona!
Jacopo non lo giudicava mai per tutte le sue
innumerevoli “cazzate’’ e in silenzio
sempre gli tendeva la mano ogni volta che era in crisi, in procinto di cadere, oppure ti trovavi
sull’orlo del precipizio.
Se il Pangalli sbagliava e questo era prassi! Per riportarlo alla ragione ed evitargli così
una débacle clamorosa … Jacopo
dimostrava in ogni occasione quella forza e quella determinazione di dargli un
calcio nel sedere, facendolo sentire un vero schifo!
Jacopo era sempre visto da Ale come un bambino dalle
guance alla “Arnold’’ e dagli occhi furbi che ridevano sempre.
Lo immaginava ancora in quel cortile, su quello
spiazzo di cemento della scuola elementare; mentre giocavano nella loro,
FANTASILANDIA, a “barone rosso” o a “
sopra” con le figurine di Daltanius o con quelle degli Astrorobot, gli eredi naturali di GODRAKE e di MAZINGA.
Un anno a Carnevale, si ricordava perfino, che in vista
della ovvia festa in maschera, allestita nel cortile della scuola … si erano messi d’accordo per vestirsi … uno
da “Actarus’’ e l’altro da “Alcor’’. Naturalmente dopo una sana e costruttiva
presa di posizione reciproca !
Tante volte quando il Pangalli era in vena di
malinconie, soprattutto all’alba di questi suoi primi cinquant’anni, dove il
rincoglionimento generale:
“piagnoneria’’ e “andropausa galoppante”
erano ormai alle porte; sentiva nella sua testa ronzare gli echi lontani
delle conte e delle filastrocche, che avevano allietato e scandito gli anni più
belli del suo essere bambino.
E così
rammentava la ballerina dentro un vaso di porcellana o il mitico
coccodrillo di palude e le sue donne nude.
I genitori di Jacopo gestivano un’ attività di generi
alimentari … che il cielo abbia sempre in gloria le piccole botteghe.
E tutto qui, in quel villaggio del Bengodi, era stato una festa senza fine; un happening
da mille e una notte.
Se il burattino di legno aveva trovato il suo PAESE
DEI BALOCCHI; lui modestamente, come cantava la Patty, aveva varcato il suo
Paradiso; altro che “oggi qua e domani là!’’
Innanzitutto l’Alessio era sempre informato ed
aggiornato sulle ultime novità in materia di brioches e di merendine e quindi
aveva la certezza matematica di entrare in possesso delle sorprese ad esse
abbinate, quindi le tanto agognate gomme da cancellare e le altre piccole
vettovaglie dell’epoca.
E poi che dire di Pasqua: ” libidine doppia libidine’’
– come predicava Jerry il gatto miracolato- la festa durava due o tre settimane
in più rispetto al calendario gregoriano.
Loro, infatti, alla faccia del colesterolo e della
glicemia, andavano nel retrobottega del negozio, una specie di Las Vegas del
godimento, per far sparire gentilmente qualche reso di uova di cioccolato.
E da bravi “ Cip e Ciop’’ si dividevano equamente –
come insegnavano gli almanacchi delle giovani marmotte- i regali che trovavamo all’interno.
Che dire poi del momento dello spuntino … era all’ordine del giorno, del resto a sette,
otto anni si trovava sempre un giusto motivo per festeggiare.
Avevano anche creato una serie di prelibatezze; altro
che Cracco, un dilettante!
Dal salame nostrano ricoperto di cioccolato spalmabile
all’ovetto di cioccolato ripieno.
Jacopo non aveva difetti, forse l’unica pecca era in
campo calcistico, lui come il resto della sua famiglia era zebrato,
simpaticamente gobbo per capirci meglio, con una ammirazione spasmodica per
MICHEL le ROI.
Mentre Alessio, pur non capendo una mazza di calcio,
era stato indottrinato dalla sua stirpe a tifare Inter, meno male che nell’età della ragione era
guarito e tifava Atalanta.
Suo fratello,
invece, bontà sua e sfiga di Alessio, gli recitava ogni giorno, come mantra o
punizione per essere venuto al mondo, la formazione tipo del biscione e aveva
anche l’orrenda e assurda pretesa di essere ascoltato in religioso silenzio,
rapito da tutto quel suo sommo sapere.
E quindi vai col samba: BORDON – ALTOBELLI- BARESI –
BECALOSSI RUMENIGGE E MULLER … in
panchina BERSELLINI … presidentissimo PELLEGRINI.
Lui, Jacopo, a differenza del Pangalli, era un tipo
sportivo, molto bravo a giocare a pallone e infatti vestiva la casacca di una squadra locale.
Inoltre amava trascorrere ogni domenica a pesca in
compagnia di quel fratello maggiore del quale lui era molto orgoglioso .
Jacopo ed Alessio avevamo una specie di tacito accordo
… una sorta di alleanza silenziosa che prevedeva la suddivisione delle incombenze scolastiche.
Ovvero il secondo si occupava delle materie
umanistiche; mentre il primo si prodigava a togliere le castagne dal fuoco per
quanto concerneva quelle scientifiche.
L’amicizia con Jacopo aveva senz’altro scandito la
parte più pura, quella più pulita dell’ esistenza di Alessio, quella dei mitici
anni ottanta, quando si aveva ancora voglia di ridere e tutto aveva un non so
che di meravigliosamente leggero e profumato.
Al cinema trionfavano pellicole come “ college ” e “il
tempo delle mele”.
Mentre alla radio si
consumava ore ed ore di “ Lisa se n’è andata via, stupida la sua follia”;
oppure “bevila perché è tropicana yè “
Intanto la signora Luisa non puliva il gabinetto haa!
E il signor Camillo, l’adorabile occhialone si faceva palpare a destra e a
manca.
E che dire di quella insopportabile bambina con le
trecce se la tirava godendo come una matta perché l’ennesimo ago l’aveva
bucata.
E cosa faceva Heidi? Cantava la sigla della “ BANDA
DEI CINQUE” sollazzandosi per la gioia del gossip casereccio con Golden Boy.
Si giocava a SIMON o a MISTER MIND e quando si scendeva in sala giochi c’era il
buon vecchio tavolo da PING- PONG o il biliardino dove era peccato originale
“rullare’’.
Ma soprattutto si aveva il buon gusto di pensare con
la propria testa, di viaggiare con la propria fantasia, di guardarsi negli
occhi mentre ci si parlava e ci si ascoltava.
Si prendeva carta e penna per scrivere lunghe lettere,
magari ridondanti e piene di errori, ma vere e avvolgenti.
E cosa meravigliosa c’erano solo quelle piacevoli
cabine telefoniche; dove prima di poterle usare dovevi aspettare che i piccioncini
di turno smettessero di tubare.
E poi una volta
entrati le maledette ci pensavano loro a prosciugarti le tasche, ciullandoti,
senza pietà, quei vecchi e cari gettoni;
oppure liberandoti dalle cinquanta, cento e duecento lire.
L’amicizia con Jacopo era stata per Alessio senza
ombra di dubbio una bellissima avventura, anche se purtroppo troppo breve; era
stata un fantastico dono del destino, perché solo in questo frangente lui era
riuscito a guardarsi allo specchio, a piacersi e cosa fondamentale a trovarsi.
La morte di Jacopo improvvisa ed insensata lo aveva
risvegliato bruscamente dal suo esilio dorato e per la prima volta aveva
sentito un certo freddo nel cuore, una sensazione che fino a quel momento non
aveva mai provato fino in fondo.
Alessio nel suo silenzioso dolore aveva ben compreso
che un ciclo era ormai finito e che una nuova epoca, oscura e enigmatica, si
stava prepotentemente facendo largo.
Ne prese atto ma mai lo accettò e forse nel suo
inconscio non lo avrebbe mai accettato!
Per Alessio,
Jacopo e tutto quello che il suo
ricordo, tanto piacevolmente nostalgico, quanto assai ingombrante, provocava …
non era altro che un pesante sospeso; o per meglio dire un perpetuo senso di
colpa.
In primo luogo l’onta di aver trascurato la loro speciale
amicizia. Jacopo infatti se ne era andato senza che il Pangalli avesse avuto
l’opportunità tangibile di salutarlo, guardandolo negli occhi. Tutto ciò era
stata una pugnalata alla schiena; perché
non doveva andare in questo modo, lui non se lo meritava.
Per Alessio proprio lui – il buon Jacopo - aveva fatto forse uno dei gesti più forti ed
unici, che solo un vero amico, avrebbe potuto concedere a cuor leggero e questo
suo gesto veniva taciuto e conservato, come reliquia, nell’animo dello stesso
Ale che mai avrebbe smesso di ringraziarlo.
Ma la cosa più vergognosa – che lo disgustava solo
nell’averla concepita e soprattutto nell’averla messa in pratica- era stato il
fatto che, dopo la celebrazione del funerale, non gli aveva mai portato un fiore sulla sua tomba.
Ad essere sinceri, stronzo il Pangalli, non conosceva
neppure il punto esatto dove il povero Jacopo fosse stato sepolto.
Non l’aveva mai voluto sapere, forse perché la sua
morte lo aveva letteralmente fatto troppo incazzare.
E poi pensava che i cimiteri non fossero altro che
luoghi freddi e grandi fucine di ipocrisia, dove i vivi andavano a lavarsi la
coscienza nei confronti dei defunti.
In questo comportamento di certo un pò blasfemo da
parte di Alessio, ci si poteva, dunque, tranquillamente leggere della sana e
sempre di moda vigliaccheria umana.
Diciamolo pure ai quattro venti il Pangalli aveva
agito secondo un suo copione esistenziale, aveva fatto quello che sapeva fare
meglio nella vita … scappare con classe senza voltarsi mai indietro.
Aveva dunque intrapreso una improbabile fuga da se
stesso, si stava purtroppo sempre più rendendo conto di impantanarsi in un
castello di paure e di mezze verità.
La morte di Jacopo aveva anche segnato quello
spartiacque tra lui e la sua scenografia di vita. Era dunque andato a ramengo
quel rapporto di fiducia tra lui e
quella cittadella di provincia che per sbaglio gli aveva dato i natali. Si era
inevitabilmente venuta a creare una frattura insanabile. Falsità, moralismo da
due soldi erano all’ordine del giorno: quanti sorrisi di plastica e quante
coltellate ! Ogni piccola cosa in quel piccolo mondo antico andava amplificata
ad ogni costo perché tutto faceva audience! Le persone ritenute sgradite o non
consone a quella mentalità da casa nella prateria venivamo additate, messe alla
gogna, marchiandole a fuoco come bestie da macello. Farisei che la domenica
erano sempre in chiesa, predicando pace e amore, baciando la balaustra; mentre
durante la settimana da bravi cecchini imbracciavano il fucile e ti facevano la
pelle. Una cittadina con la pretesa assurda di sentirsi grande, da possedere
una ferrovia giusta giusta per i
Playmobil, con due umili direzioni; per il resto bisognava semplicemente
affidarsi al destino!
Sicuramente l’ Alessio Pangalli era quello che
era; perché aveva respirato quest’aria
da balera!
Conclusioni
Era accaduto tutto in una notte; la notte della
svolta, quel momento di solitudine primordiale, in cui si risvegliavano calde e
soffocanti tutte quelle forvianti verità, che erano state volutamente nascoste
nei meandri di una vita piatta ed inutile, fatta di imbarazzi ed allucinazioni
di ogni tipo.
Ed Alessio Pangalli, eroe sbiadito del suo tempo,
questo purtroppo lo sapeva benissimo! Perché lo aveva annusato e provato molto
bene sulla propria pelle …
Aveva, infatti, trascorso questo suo atroce momento
catartico in un profondo e proficuo religioso silenzio; in compagnia di tutte
quelle sue fottute paure, che, vigliaccamente, non la smettevano più di
importunarlo, facendogli riaffiorare alla mente, con estrema dolcezza, barbari
ricordi, che gli toglievano letteralmente il fiato, gettandolo --- senza alcun
ritegno--- nelle avvolgenti grinfie dei suoi fantasmi più neri.
Aveva dunque, per necessità personale, rivissuto parte
della sua infanzia … della sua giovinezza; accorgendosi, a malincuore, che, in
fondo, proprio lui aveva smarrito in modo vergognoso parte della sua medesima
identità; riducendosi ad una imbarazzante larva, uno sconclusionato ed alquanto
insignificante BURATTINO, i cui fili erano mossi dalla STUPIDITA’ dilagante.
Si era creato perciò un incolmabile vuoto attorno a sé
… non vedeva più colori, non percepiva più profumi; si limitava a vivacchiare,
perché la sua stupida natura a lui lo imponeva.
E proprio quel buio e quella impotenza generale lo
stavano piano piano risvegliando da quel maledetto letargo esistenziale.
La vita non era che un inaspettato groviglio di
fregature e di piccole battaglie … fughe
ed esperienze che andavano gettandoti in
una sorta infernale di TRITATUTTO ESISTENZIALE; dove il cecchino più in gamba,
quello più svelto, con la bava alla bocca, non vedeva l’ora di impallinarti al
muro.
Si veniva, piaceva o meno, catapultati
involontariamente in una sorta di bosco immaginario: una foresta impietosa di
mostri malvagi, vestiti di quei mille e mille fallimenti che ti inseguivano –
senza darti tregua – fino a quando non ti prendevano per le palle e per
sfinimento. E tu, umiliato, tradito e marchiato come quel povero porco pronto
al macello, non vomitavi l’anima.
Ed Alessio, il deficiente di turno, quante volte in
quella sua disgustosa commedia umana – Zola l’avrebbe baciato in bocca per la
sua proverbiale sfiga- si era cacciato due dita in gola per sopravvivere alla
FOLLIA ITALICA!
Né RATIO né CUORE
né PIETAS potevano salvarti dalla tua gogna, perché oramai eri segnato,
additato da quei FARISEI vestiti a festa come quella scheggia impazzita che
sputava nel piatto in cui era costretto a mangiare.
E allora ti accorgevi, che solamente dei profetici
incontri, quelli benedetti dal DESTINO,
potevano donarti per cinque minuti quello strano prurito di una felicità
ritrovata.
E proprio in
queste circostanze ti affannavi a ricostruire il tuo puzzle esistenziale,
sperando di non aver perso il tassello
più importante … perché altrimenti ti accorgevi, ahimè, di non essere servito a
niente e ti risvegliavi nudo come un verme, riscoprendoti una “PIPPA”!
L’incontro con queste anime belle, così diverse tra
loro, così fuori dal comune da quella massa uniforme di ciarpame arrogante, fonte
solamente di illusioni e di disillusioni; avevano realmente regalato ad
Alessio alcune fra le pagine più belle
e poetiche del suo vivere.
Loro erano state aria nuova, quel respiro di rinascita
e maturazione intima che senza saperlo avevano nutrito di curiosità e di
intrigo intellettuale la sua penna e le sue carte.
Ripensare alla dolcezza di Rebecca, alla poetica
sventura di Frau Muller, allo sguardo malinconico di uno smarrito Lorenzo; per
poi soffermarsi sulla sensuale problematicità di una irrisolta Diamante e
toccare infine con mano quella triste dipartita di uno Jacopo beffato da un
destino infame; aveva trascinato il nostro amico Pangalli in una benefica e
necessaria resa dei conti proprio con se
stesso e con le sue numerose manchevolezze.
Adesso basta! Lui non ne poteva davvero più di tutta
quella merda addosso! Voleva farla davvero finita una volta per tutte con le
proprie criticità emotive; voleva finalmente costruirsi la sua zona confort di
vita … Alessio infatti in questo suo viaggio alla piena scoperta del suo
inconscio, aveva maturato la sacrosanta consapevolezza di voltare finalmente
pagina.
Come lentamente il buio di quella notte propizia stava
dolcemente scemando in quella delicata luce del primo mattino; così quel
giovane uomo stava vedendo una via di fuga da quel labirinto di nefandezze, che
lo avevano accompagnato fino a quel momento.
Il Pangalli aveva decisamente aperto gli occhi e aveva perfino deciso di sguainare quella
sorta di spada immaginaria contro tutto e contro tutti!
Da quel momento in poi avrebbe smesso di compiacere
gli altri, non avrebbe certamente più fatto scelte sbagliate, deleterie ed
impopolari per lui e la sua sensibilità di essere umano. Insomma si sarebbe
lanciato in progetti che rispondessero a pieno ai suoi desideri e
rispecchiassero sino in fondo il suo esclusivo progetto di vita.
Avrebbe cercato di conoscersi veramente, senza avere
paura di trovarsi di fronte ad una persona diversa da quella che la sua
immaginazione malata gli aveva inculcato.
Avrebbe abbracciato così la voglia di perdonarsi una volta per tutte … per poi
cogliere la palla al balzo e iniziare ad amarsi veramente.
Commenti
Posta un commento