ROMANZO BREVE :

SEMPLICEMENTE TUTTO IN UNA NOTTE

 

DI LOWE VON ADLER

 

 

 

DEDICA

 

Ognuno ha il suo piccolo Paradiso …

           



 

 

 

 


 


 


Capitolo Primo


 


La leggera frescura di quel diciannove Marzo regalava in quella notte strana e malinconica un non so che di misterioso ed impalpabile nell’aria; come se una forza sovraumana stesse respirando sopra a quella piccola realtà di provincia. Una piccola cittadina in balia dei suoi ritmi blandi e delle sue storie di ordinaria follia; dove ogni innocuo accadimento diventava grosso come un elefante.

Una luce improvvisa si accese fioca nella piccola cucina stile tirolese in quella villetta d’angolo che, insieme ad altre costruzioni gemelle, andava creando il villaggio residenziale - conosciuto dai più - con il nome di villaggio “la Valle dei Pini”. Un palcoscenico variopinto, in cui si esibivano, come le più simpatiche scimmiette ammaestrate, pessimi uomini che si credevano grandi attori!

Questo non era altro che un piccolo mondo antico, fatto di perversioni e di molte ipocrisie; una realtà di una periferia avvelenata, dove il pedigree era ancora d’obbligo; o per meglio dire non era mai passato di moda!

Qui vi era un gran via vai di gente, bella gente, per carità: al mattino ti sorrideva beata e gioconda; mentre alla sera, nascondendo il pugnale nella tasca, ti tradiva annientandoti con un fendente.

Nessuno, volesse il cielo, interagiva con nessuno, in pratica uno sventurato qualsiasi poteva chiedere aiuto, con la certezza che nessuna mano tesa lo avrebbe preso per evitargli una imbarazzante caduta nel baratro.

 … Niente emozioni da condividere – per carità- , solamente dei freddi e stentati saluti a denti stretti!

Eppure in quella villetta giallo paglierino qualcosa di inaspettato stava di lì a poco per accadere. Era come se in quella freddezza generale si stesse per vivere un coup de théatre alla moda della più pregevole commedia umana firmata Balzac.

Ma chi era poi lo sfortunato di turno pronto a diventare l’inconsapevole attore di quella sciarada voluta dal destino? La sorte beffarda aveva dunque puntato il dito contro il povero Alessio Pangalli.

Alessio possedeva quella prestanza fisica e quel particolare non so che, capace di intrigare la preda del giorno; anche se la sua proverbiale timidezza verso l’altro sesso lo faceva balbettare in modo assai imbarazzante.

Fino ad un anno prima il Pangalli aveva lavorato come super manager in una prestigiosa azienda di videogiochi, dove aveva ideato e firmato progetti che avevano avuto una grande eco e dei riconoscimenti assai importanti dalla stessa opinione pubblica.

 Ma purtroppo ogni bella favola che si rispetti ha sempre un momento in cui si deve decretare per causa forza maggiore una doverosa fine. E anche Alessio non poteva fare altro che rispettare questa prassi! Così quando la sua vena creativa aveva purtroppo cominciato a fare le bizze e sulla sua strada si era affacciato –come perfido sciacallo- il giovane ventenne voglioso e rampante, nipote di  una potente eminenza grigia; lui venne gentilmente messo alla porta con un sorriso e con un calcio nel sedere!

E allora a quel punto della sua vita il buon giovane si era visto costretto a reinventarsi del tutto. Stanco di quella intelligenza artificiale che con lui era stata matrigna, silenziosamente un po’ bastarda e poco riconoscente; aveva finalmente deciso di voltare completamente pagina, ignorando studi, sogni e soprattutto conto in banca.

Ma che cosa poteva dunque inventarsi il Pangalli per non soccombere del tutto alla noia e alla pigrizia e resistere così agli urti della vita?

Facendo i conti con i suoi ricordi, memorie di un’infanzia targata “quella casa nella prateria”, dove ogni cosa profumava di zucchero filato; colse la palla al balzo e rispolverò la sua antica passione per il verde e la botanica.

Dai cinque anni  in poi, infatti, durante quelle interminabili estati afose di una Val Padana vestita di sole e di azzurro, il piccolo Alessio affiancava nonno Ermenegildo nel giardino e nell’orto di quella piccola casetta bianca dal tetto rosso.

Quindi a questo punto il dado era tratto! Lui avrebbe appeso al chiodo il mouse e abbracciato con ardore la zappa … del resto lui boomer fiero ed orgoglioso era cresciuto al ritmo di “ voglio andare a vivere in campagna” di Toto Cutugno.

Per il nostro amico Pangalli non fu certamente difficile avviare la sua nuova attività; in quanto sapeva benissimo che se fosse andato a perorare la sua causa dalla vecchia Ernestina, la moglie del Peppe … il boss indiscusso del villaggio residenziale “la Valle dei Pini”, tutto sarebbe decollato con uno schiocco di dita. E così fu! Abbandonati i panni del manager rampante; era pronto a presentarsi al mondo come giardiniere tutto fare.

Naturalmente la prima a beneficiare dei servizi di Alessio – neanche a farlo apposta- fu proprio la stessa Ernestina, fedele al motto “ provare per credere”. E quella esperienza fu per la donna talmente piacevole, per leggerezza e divertimento, che sdoganò a tal punto il lavoro del giovane da farlo diventare l’idolo indiscusso dell’intera popolazione femminile di quel piccolo villaggio urbano. Non c’era signora al “Villaggio dei Pini” che non avesse avuto occasione di gioioso intrallazzo con il Pangalli.

Del resto fu proprio lei, l’intrepida Ernestina, che nel vederlo a torso nudo cominciò ad intonare, come una pazza scatenata e per prima, la canzone “brividi”. Ed era stata ancora lei a paragonarlo a quel Big Jim con cui suo fratello Giannino amava giocare da piccolo. A quella simpatica vecchietta, tutta pepe, la presenza del giardiniere gigolò le dava l’assurda sensazione di trovarsi in una puntata della sua serie televisiva preferita “ desperate housewive “.

Ma torniamo a quel diciannove marzo, in quella villetta d’angolo, in cui un ragazzo qualunque stava vivendo i postumi di una strana notte, dove menzogna e verità andavano cavalcando la stessa onda malsana. Era come se un gran carnevale di pensieri disarmonici venisse all’improvviso a galla e catapultasse l’ignaro Alessio in un inferno senza fine. Del resto lui stesso si era trovato imbrigliato in una ragnatela di situazioni senza capo e senza coda.

Quel giorno aveva festeggiato con quei pochi amici, che contava sulle dita di una mano, il giro di boa dei suoi primi cinquant’anni. Una festa sciatta, priva di brio, costruita a tavolino per dargli la sensazione di una felicità di facciata. Una serata che assomigliava sempre più ad una farsa colossale e che gli faceva venire voglia di mettersi due dita in gola e di vomitare tutti i suoi primi cinquant’anni!

Aveva bevuto, sorriso e stretto mani di gente che, alla resa dei conti della sua vita incasinata, non era altro che una pietosa zavorra di ipocrisia all’ennesima potenza da debellare ad ogni costo.

E adesso, nel momento in cui quell’insulso ballo in maschera era finalmente giunto al termine, si sentiva solo e triste più che mai e quelle quattro mura – guadagnate col sudore sul campo- non gli sembravano altro che una grigia prigione da cui era davvero impossibile evadere.

Il Pangalli era distrutto; sembrava quasi fluttuasse in un vortice di non senso, un’allucinazione non prevista che lo invitava a porsi domande su domande; le cui risposte purtroppo restavano solamente una grande incognita tutta da decifrare!

Aveva sempre sognato una vita diversa, fatta di musica e di armonie , nella quale avesse finalmente l’opportunità di arricchire di note il suo quaderno pentagrammato; eppure la vita lo aveva sempre portato a scelte che in fin dei conti non facevano altro che prendere a cazzotti la sua stessa essenza. Diciamocela tutta Alessio era stato sempre il killer di se stesso!

Ma adesso era stanco, veramente stanco; perché aveva ben compreso che qualcosa si era rotto definitivamente dentro di lui. Aveva recitato un’insulsa commedia che gli andava stretta e l’aveva recitata per darsi quel tono che avesse appeal in quel circo a tre piste dove lui era il clown.

Era diventato dal giorno alla notte il peggior nemico di se stesso, non si sopportava più e tanto meno non poteva di certo amarsi. Dietro di lui non aveva che lasciato una scia di fallimenti … di cose iniziate e mai portate a termine , forse per paura,  o per pigrizia o semplicemente per arroganza.

Il suo atteggiamento, a volte intollerante e dispotico, aveva distrutto quelle persone che alla fine avevano avuto la sola colpa di amarlo veramente.

Oramai si era reso conto di aver smarrito la strada maestra e si era ritrovato e adagiato nella convinzione di essersi impantanato in una realtà surreale; in cui le sue colpe e i suoi fantasmi più neri lo stavano divorando lentamente attimo dopo attimo.

Nella sua vita non aveva mai pianto, perché gli era stato insegnato che era cosa buona e giusta gestire il proprio pudore e le proprie fragilità in modo autonomo e riservato. Nessuno mai lo avrebbe dovuto vedere ferito e fermo all’angolo!

Eppure in quella giornata particolare tutte le sue certezze si stavano sciogliendo come neve al sole : aveva sicuramente perso lucidità e si era accorto, suo malgrado, che la sua stessa vita  non aveva più alcun mordente, era come una canzone dal buon potenziale, ma eseguita in modo stonato.

Girava e rigirava in quel piccolo salotto alla medesima stregua di quella belva ferita a tradimento e neanche lui capiva fino in fondo il vero motivo di quell’immensa irrequietezza. Ma poi il suo sguardo – senza un vero perché – lo accompagnò in direzione di un comò dal sapore antico, un ricordo di famiglia.

E qui tra le cianfrusaglie di una vita spuntava una piccola cornice d’argento che custodiva in silenzio il suo fallimento più grande: l’ombra di un padre che forse non aveva mai imparato a conoscere, forse per pregiudizio o per inadeguatezza.

“Quanto è bastarda la vita! Nasci il 19 marzo e poi ti scopri irrisolto nei confronti del tuo stesso padre!” … pensava Alessio tra sé e sé. Difatti quella con il suo genitore era una sorta di battaglia invisibile che si andava silenziosamente ancora combattendo oggi dopo mesi dalla sua scomparsa.

Il rammarico di non avere vissuto fino in fondo quel rapporto ancestrale e di aver costruito un muro fatto di comportamenti circostanziali e di sospetti atroci era tale che il Pangalli per la prima volta aveva voglia di piangere. Non aveva pianto quando per dieci anni lo aveva visto consumarsi giorno dopo giorno, come una candela solitaria su quel davanzale triste e spoglio, con la consapevolezza di essere diventato un peso per la parte sana della famiglia. Non aveva pianto alla cerimonia funebre, perché aveva vissuto il tutto come una situazione irreale, una situazione fuori di sé.

Ma quella sera – al giro di boa dei cinquant’anni- aveva deciso di lasciarsi andare e di dire basta a quella maledetta reticenza che lo aveva indotto ad un comportamento freddo, delle volte cinico, ma soprattutto affettato.

Quante maschere il buon Alessio aveva dovuto indossare per sopravvivere al cosiddetto contratto sociale; subdoli accorgimenti per non soccombere e navigare a vista!

Tutti quei pensieri così prepotenti e vagamente ruffiani si affollavano con veemenza in quella testa, ormai confusa dalla situazione, col risultato che gli stessi  avevano così creato una specie di ragnatela di fili metallici, capace di ingabbiare il suo cuore rancoroso.

E allora per non affondare del tutto, sentiva il bisogno di annullarsi nell’ennesima sigaretta, magari accompagnata da quel liquore al caffè.

Intanto dalla villetta vicina giungeva inattesa “ People are strange” dei Doors; e subito Alessio ebbe l’istinto di cantarla a squarciagola, come se quella stessa melodia fosse una poderosa droga a cui fosse assai difficile resistere.

Quella canzone era per quel giovane uomo un déjà vu; l’occasione ghiotta per ricordare quel liceo linguistico, dove aveva speso gli anni più belli e meno incasinati di una vita ancora acerba di un brufoloso ragazzino alle prese con i suoi primi pruriti.

Non era stato un periodo del tutto idilliaco; ma almeno si poteva affermare di aver vissuto nella leggerezza e nella piena libertà di essere ancora predisposti al lusso di sognare; perché tutto ciò non costava niente e si poteva davvero ancora credere di cambiare il mondo!

E qui in questa oasi felice aveva conosciuto Rebecca, una persona meravigliosa che se ne era andata troppo presto, non era riuscita a sconfiggere quella malattia canaglia e il destino impietoso l’aveva chiamata a sé.

Rebecca era quel fiore raro che lo si trovava in quel giardino d’inverno, dove si andava lieti per respirare la vita. Era quel fiore raro dai colori sgargianti, il cui profumo ti inebriava e la cui bellezza ti ubriacava.

 Era gioiosamente naif e mai banale, talmente fuori da ogni schema prestabilito, da risultare un essere quasi sprecato per le brutture di quel tempo rarefatto, per la cattiveria di quel mondo infame.

Ad Alessio – personaggio decisamente sopra le righe- quanto piaceva l’originalità di Rebecca! Proprio lui che, per indole e per modo di porsi d’innanzi alla realtà del quotidiano, aveva sempre avuto un occhio di riguardo per la diversità sana e fruttuosa, piuttosto che svendersi- come una puttana qualunque- alla più squallida omologazione di pensiero e di azione.

E la ragazzina era così ingenuamente pulita e bella dentro nel suo modo di presentarsi … che chiunque avesse il privilegio di incrociare, anche per un solo istante il suo sguardo; ne rimaneva inspiegabilmente travolto, quasi ipnotizzato da quel carisma, che ti metteva ko in un angolo.

Il Pangalli era solito definirla come un “ mostro sacro “, una meravigliosa rarità, tutta da applaudire e tutta da venerare. La vedeva come quell’artista un po’ folle, dall’anima incompresa, che amava i giochi di chiaro-scuro, in barba ai colori e alla prospettiva.

Rebecca aveva questo suo strano modo di fare, così inaspettatamente frastornato e frastornante, che le conferiva un’aria quasi di mistero, che, nonostante tutto, sapeva conquistare, regalando una simpatica empatia che lo faceva sentire al centro di un mondo nuovo, che solleticava la sua parte migliore.

Era una meravigliosa sorpresa che si rinnovava di giorno in giorno come la scabrosa promessa di due eterni innamorati, pronti a camminare mano nella mano alla conquista di un posto al sole.

La musica e le parole dei Doors continuavano ad impazzare in quel piccolo salottino e Alessio era sempre più avvinto dall’interminabile fluttuare di quella prepotente massa di ricordi soffocanti, che lo facevano sentire come “lo scarafaggio” di Kafka, sempre sul chi va là … per paura di essere calpestato.

 Che bello lasciarsi trasportare da quel suo sguardo malinconico!

 Che favola lasciarsi sedurre da quegli occhi blu mare di un’ eroina romantica alla ricerca di evanescenti attimi tutti da scrivere!

Era come se l’uomo andasse respirando una nuova ventata di aria fresca in quella notte in cui ipocrisia e  falsità la facevano da padrone con grande prepotenza. E il solo fatto di pensare alla figura di Rebecca sembrava ridargli una giusta dimensione e una giusta dignità.

Del resto quanti avevano avuto l’onore o la fortuna di vivere fino in fondo la  dolcezza di quella giovane donna, non potevano che tranquillamente affermare di essere rimasti colpiti da quella sua disarmante tenerezza che, alla fine, non conduceva altro che ad una specie di paradosso tutto da scoprire!

Infatti la sua timidezza e la sua discrezione facevano ancora rima con parole come educazione e rispetto, termini con cui il buon Alessio andava ancora d’accordo , nel famigerato terzo millennio;   sebbene tutto ciò  risultasse del tutto obsoleto e suonasse come una colpa o come un marchio di stupidità!

Ma  Rebecca senza saperlo era diventata per il Pangalli un bellissimo souvenir, un chiodo fisso …   lei dunque incarnava quella diva della porta accanto, tutta acqua e sapone, magari un po’ persa nei suoi ragionamenti, ma sempre romanticamente vera. E per questa ragione l’uomo si sentiva in obbligo di donarle come pegno di fedeltà assoluta due righe di poesia da lui concepite:

A te anima bella

In silenzio

Ti sei dissolta

Creando quella stella

Che illumina

I miei passi …

Ti lascio questo bacio

Che sa

Di malinconia

La musica era andata scemando e in quella piccola stanza si ritornò a respirare uno strano ed impalpabile silenzio, del resto il “Vaso di Pandora” era stato scoperchiato e certamente non si poteva tornare indietro:nulla era più come prima.

Alessio senza accorgersene aveva scomodato quei mille e mille fantasmi che era riuscito miracolosamente fino a quel momento ad assopire e relegare nell’androne più oscuro della sua anima. Insomma, con un perfetto gioco da equilibrista consumato, aveva avuto la forza di domare i suoi demoni, le sue paure e ogni sua fobia, rendendo il tutto come legittime alterazioni di un carattere in divenire.

Ma ormai la misura era veramente colma! Il Pangalli non ce la faceva davvero più a sopportare tutta quella melma di insoddisfazioni e di pesantezza esistenziale che andava a minare la sua integrità psichica. Si sentiva oppresso come quell’antico vulcano in procinto di eruttare da un momento all’ altro!

Aveva appena compiuto cinquant’anni eppure dentro non si sentiva a posto con se stesso; forse perché non aveva ancora accanto quella persona ad hoc in grado di addomesticare la sua incapacità di codificare le regole basilari dell’educazione sentimentale. Come poteva amare un’altra persona dal momento che odiava se stesso? Da molto tempo lui aveva ben compreso che tutti quei fantomatici nemici che, secondo sua sensibilità andavano affollando i suoi pensieri, non erano altro che dei mulini a vento; il vero suo nemico era uno solo, lui stesso, vestito di tutte quelle sue farneticazioni e contraddizioni che lo facevano sopravvivere alla vita stessa.

Alessio si ricordò di aver lasciato nel cruscotto della sua utilitaria un pacchetto dalla carta dorata con il fiocco bianco, l’unico regalo che aveva ricevuto in quella giornata così bizzarra. Lo andò subito a prendere nel garage condominiale e con fare quasi seccato lo lanciò sul tavolino di cristallo.

Continuava a guardare quel pendolo di legno antico, ma quelle maledette ore non volevano trascorrere;  era come se il tempo stesso aveva congiurato contro di lui e contro la sua insaziabile malinconia. 

E allora aveva deciso di punirsi, come solo lui sapeva fare, quando si prefiggeva una sorta di pianto liberatorio,  in grado di trasformare tutte quelle amarezze in ritrovati momenti di piacevole serenità.

Così andava davanti a quella grande scaffalatura di metallo verde acqua, che si trovava nel corridoio della notte … e a colpo sicuro prendeva dal ripiano più alto la videocassetta del film “A Walk to Remember” .

Dopo avere indossato il pigiama ed essersi tolto di dosso i vestiti e il fetore della giornata appena trascorsa, si sedeva su quel divano di pelle sfatta in compagnia di Landon Carter e Jamie Sullivan, sicuro che quegli eroi di celluloide gli avrebbero placato prima o poi quella sua inspiegabile insoddisfazione, ricongiungendolo di fatto a  quel suo piccolo mondo ideale.

Ma quel maldestro tentativo di fuggire vigliaccamente quella sua condizione di sudditanza nei confronti di un malessere interiore era risultato alquanto banale e del tutto inutile; perché ad un certo punto di quella sua patetica operazione di “reset” generale … il suo sguardo aveva incrociato, per sbaglio, la fotografia impolverata di un piccolo e sorridente Alessio, “vestito” di una nauseante giocosità, momenti pallidi di una felicità lontana!

In una cornice sgangherata, scollata dal tempo, trionfava il ritratto sbiadito di quel piccolo bimbo, retaggio degli anni settanta; periodo storico complesso e di contestazione, dove tutto era il contrario di tutto.  E più precisamente lui venne alla luce, rompendo ogni indugio ben sedici giorni prima dell’ora x alle cinque e trenta del mattino, in quel giovedì, nove Agosto del millenovecentosettantatre; giorno in cui per la quattordicesima volta i Russi avevano deciso di lanciare una sonda verso Marte.  Era l’ anno in cui nella politica all’amatriciana l’inaffondabile “Balena Bianca” la faceva da padrone nascondendo le chiavi di Palazzo Chigi sotto la mattonella. A quel tempo,infatti,era di gran moda ballare come pazzi quel tango a due targato  Andreotti/ Rumor. Mentre al Colle si respirava aria di Savana; peccato solo che di lì a poco “sua Maestà” avrebbe abdicato, infangato nel suo onore!  E a San Remo- puntuale come le tasse- il buon Peppino … quel sognatore, orgoglio caprese, dopo aver sbronzato la povera Roberta con champagne, da gran paravento la stendeva con “Un grande amore e niente più”, vincendo la kermesse di quell’anno. Completavano quel podio, al secondo posto, per par condicio, un altro Peppino, tale Gagliardi, - sfido chiunque a ricordarsi una sua canzone!-

Mentre al terzo girava bene  all’inconfondibile voce di Milva, che finalmente usciva dalla Filanda; gridando a tutti : “Belli Ciao!”.

 Anche se nell’immaginario collettivo, Alessio in primis, restavano nella storia di quel millenovecentosettantatre melodie irripetibili come: “ l’uomo che giocava il cielo a dadi”, lo struggente capolavoro di un ispirato Professore milanese …  dedicata al padre giocatore d’azzardo e una allucinata e sgangherata “sugli sugli bane bane” delle divertenti Figlie del Vento; che tra carciofi, lattai … benedivano chi aveva inventato l’amore.                                  

 E per la prima volta, miracolo inaspettato e inaudito nel Bel Paese, una Sufraggetta Bionda, fregando sul tempo Fatine e dirigibili   – Gabriella Farinon in nome della precisione- presentava da sola, senza il benestare maschile, quella competizione canora.

 Anche se l’ultima sera, quella trasmessa in diretta sul primo canale,ovvero la serata number one, per non smentirsi, ci si affidava di nuovo anche al buon vecchio e caro Michele che munifico di squilli di tromba e gaffes presunte o meno, rappresentava certamente l’usato sicuro e non traumatizzava la tradizione più conservatrice, quella che vedeva nella donna una sorta di “geisha” o “di romantica crocerossina” … insomma l’Angelo del Focolare.

 Mentre sui campi di calcio si laureavano campioni d’Italia gli Aquilotti, peccato che a quei tempi la Falchi avesse solo un anno; altrimenti via al samba!

Intanto Hollywood – nella sua megalomania generale- incoronava come miglior film “il Padrino” di Coppola.

Una  Liza Minelli, stranamente sobria, si aggiudicava la statuetta per la sua memorabile interpretazione in “ Cabaret” …

 Ma la cosa più strana di quella edizione era che la stessa opinione pubblica rimaneva assai basita dal rifiuto plateale della statuetta da parte di Marlon Brando,uno degli interpreti maschili del “Padrino”. Si diceva che tale gesto fosse stato compiuto  in difesa degli Indiani d’America e delle loro precarie condizioni di vita.

Quel millenovecentosettantatre per Venezia fu letale; in quanto non poteva di certo rispondere a tono allo strapotere dello “Zio Sam”, poiché le gravi contestazioni degli anni settanta avevano così preso il sopravvento da cancellare l’evento stesso e da conservarlo per momenti migliori.

Situazione che non accadeva di certo in città come Berlino o Cannes.

Difatti nella città del Muro, l’ Italia partecipava con due pellicole, “Malizia” di Samperi, la volta buona di Laura Antonelli, che, grazie a quella sua interpretazione, ottenne la sua consacrazione, decretata dal pubblico e dalla critica; e “La proprietà non è più un furto” di Petri, tra i suoi interpreti: Flavio Bucci, lo strepitoso Ligabue in uno sceneggiato Rai; Ugo Tognazzi e Gigi Proietti.

A Cannes, invece, il Cinema del Bel Paese si presentò con più titoli: da “Bisturi – La Mafia Bianca- diretto da Luigi Zampa; “ Vogliamo i Colonnelli” di Mario Monicelli all’  “Amleto di meno” regia di Carmelo Bene.

Anche se il vero scandalo fu il film “La Grande Abbuffata” di Ferreri, con Tognazzi, Mastroianni, Noiret e Piccoli; fischiato e censurato, perché considerato rozzo, volgare e veicolante al sesso più blasfemo ed offensivo.

Insomma aveva saputo creare un gran scompiglio tra il pubblico più “incravattato” e la critica più conservatrice e meno propensa ad un umorismo di grana grossa.

Se Ferreri era “il Lupo cattivo”, un alquanto giovane Giancarlo Giannini, dopo la leggerezza del musicarello anni sessanta con Marisa Sannia, Rocky Roberts e Lola Falana; convinceva la giuria, aggiudicandosi a mani basse la palma per il miglior interprete maschile, grazie alla sua brillante performance nella pellicola diretta da Lina Wertmuller “ D’Amore e D’Anarchia”.

 Ma per Alessio  il suo anno di nascita significava anche in un certo senso la sublimazione di quell’amore spasmodico nei confronti dei mitici cartoni animati e dei manga giapponesi. Dalle grandi serie “ yankee” prendevano forma cartoni animati come “Jeanny” la genietta vestita da mille e una notte, alter ego del maggiore della N.A.S.A Antony Nelson; “Star trek” e le mitiche orecchie del dottor Spock   e dulcis in fundo “l’intramontabile “Famiglia Addams” e l’iconica cagnolona “Lassie”.

 Senza dimenticare prodotti a più ampio respiro, i cosiddetti sempre verdi, come “L’orso Yoghi”, “Robin Hood”, “ il libro della jungla” e i “Superamici” … ovvero Batman e Robin , Superman e  Wonder woman formato famiglia.

E poi come scordare “Jenny la tennista”, ogni suo match durava – se si era fortunati- una settimana a set. E ancora “Babil Junior” e la sua mitica pantera nera;” kyashan” il ragazzo androide, “la banda dei ranocchi”, “Cybernella” e “Sam il ragazzo del west”.

Questo era il vero mondo di Alessio Pangalli, dove fantasia e sogno andavano a braccetto, catapultandolo in una dimensione tutta sua, dove c’era solo lui e non doveva rendere conto a nessuno.

Ed Intanto – in quel millenovecentosettantatre così denso di eventi : dalla crisi petrolifera, alla caduta di Pinochet in Cile; dalla protesta degli studenti Greci nei confronti del Regime dei Colonnelli, all’autobomba di Piazza Barberini e all’attentato di Fiumicino- il Cinema italiano dava l’ultimo Saluto commosso alla sua amata “Nannarella”, una donna sfortunata in amore; ma un’attrice di polso e di cuore, che aveva saputo commuovere e convincere con la sua sentita romanità addetti al lavoro e pubblico, come del resto testimoniava il suo Oscar per “La Rosa Tatuata”.

 Ma veniamo a cose serie quell’anno a Miss Italia, nella città di Vibo Valentia, tra il venticinque Agosto e il ventisei, Mike Buongiorno, sempre lui, incoronava la diciannovenne Margareta Veroni di Carrara, che partecipava alla competizione in qualità di Miss Cinema, in rappresentanza della regione Toscana.

 Una ragazza castana di media altezza, segni particolari un occhio verde e uno marrone, che avrebbe poi potuto vantare la partecipazione nel 1975 al  film drammatico- erotico  “Labbra di Lurido blu “ , pellicola diretta dal regista Petroni ; con Lisa Gastoni, Corrado Pani e Pino Caruso.

 Anche se forse la vera vincitrice di Miss Italia millenovecentosettantatre restava lei, una giovanissima Carmen Russo, che pur non avendo avuto corona e scettro, aveva dato un calcio alla sua invisibilità.

Infatti alla fine degli anni settanta, partendo da Antenna tre Lombardia, incrociando Ettore Andenna e la sua” Bustarella”, arrivava in Rai – coltivando anche il suo alter ego di “Carmen Bizet”-.

La sua consacrazione avveniva poi negli anni ottanta alla corte di sua Emittenza “re Silvio”, con programmi cult, come Drive in; Risatissima e Gran Hotel.

Ma torniamo al prodotto migliore di quella annata, ovvero a quel piccolo bambino fermo, immobile in quel rettangolo d’argento acciaccato dall’usura del tempo, che all’Alessio maturo non gli faceva per niente tenerezza; anzi lo indispettiva, per non dire che lo irritava.

Lui, quel nanetto gioioso aveva la supponenza dell’essere più felice di questo mondo, perché dentro la sua tenera scorza sapeva benissimo di possedere quella chiave magica che di certo gli avrebbe permesso di giocare la carta dell’ingenuità.

Peccato per lui ! Viveva la vita con leggerezza, senza purtroppo mettere in conto che tutta quella vanesia felicità era solo una bellissima utopia, creata ad arte per illuderlo. Intanto di lì a poco ci avrebbe pensato la vita a risvegliarlo da quel torpore così poetico e irreale … a calci nel sedere e a cazzotti ben piazzati in pieno ventre.

Certamente faceva la sua bella figura con quel grembiule bianco, che profumava di fresco bucato, e quel fiocco azzurro, così graziosamente ingombrante! A vederlo lì rigido in quella posa plastica e vagamente intellettuale, si poteva prospettare per lui un destino prospero e ricco di realizzazioni certe; chi avrebbe potuto mai immaginare che invece sarebbe stato vittima di una colossale barzelletta?

 

Il piccolo Alessio aveva vissuto un’infanzia ovattata, non di certo per merito suo, ma per quel tenore di vita che i suoi genitori gli avevano potuto dare grazie a quanto avevano saputo costruire con il loro lavoro. La sua unica prerogativa era quella di godere a pieno della situazione e di beneficiare di quei frutti, disponendone per una propria soddisfazione personale. E la cosa gli piaceva moltissimo, tanto era vero che nel fare ciò dimostrava un’attitudine davvero invidiabile!

Ma per lo strano gioco di un destino dispettoso; doveva dividere quel palcoscenico con altri due fratelli che gli erano piovuti dal cielo come la più classica offerta di un supermercato qualunque “ compri uno … te ne diamo due.”

Appurato che bisognava accogliere ogni dono col sorriso stampato sulla faccia, il Pangalli accettava – diciamo di buon grado- quel circo e lottava per la propria sopravvivenza, tenendo conto che, nonostante amasse il ruolo da protagonista, doveva accettare a denti stretti quello da comprimario.

Del resto essendo il mezzano aveva imparato sul campo che lui era quello invisibile, perché, che se ne dica, il primogenito e l’ultimogenito erano quelli che si spartivano nel bene e nel male onori ed oneri.

E siccome l’acerbo Alessio aveva ben compreso che di ogni necessità era cosa buona e giusta crearsi una sorta di virtù salva vita, era riuscito, certamente per merito di quel pizzico di fantasia e di follia, a resistere con stile ai primi logorii della vita. Quindi, sebbene i rapporti con i propri fratelli non fossero idilliaci, aveva stillato – nella sua testa ben organizzata- una specie di vademecum della sopravvivenza: una distanza di sicurezza al fine di salvaguardare la propria stabilità mentale; un fegato grosso come una casa per difendere le proprie proprietà e un temperamento abbastanza passionale per partecipare agli eventuali scontri al vertice, meravigliose battaglie fatte di insulti, morsi e sputi … con la classica conclusione di porte sbattute con grande impegno.

Ma la forza di quella “adorabile canaglia” era di aver capito fin da subito le strategie migliori per piacere al suo clan. Innanzitutto sapeva in ogni circostanza come apparire sempre nella maniera più consona al desiderio altrui; inoltre aveva quel piglio quasi artistico di manipolare la realtà a proprio piacimento, avvalendosi di provvidenziali omissioni e di divertenti mezze verità. Era così bravo in questo suo esercizio di libera creatività che lui stesso a volte faceva davvero fatica a riconoscere il totalmente falso dalla verità.

Era così abituato a crearsi un suo mondo parallelo che anche nell’invenzione della balla più assurda, non diventava rosso e non faceva neppure una piega!

Qualora poi venisse per disgrazia “sgamato” passava con disinvoltura al miracoloso piano B. Non negava la sua colpa, anzi prendeva di petto la situazione e se ne assumeva la piena responsabilità. L’unica cosa era che nel fare questa dimostrazione di forzata contrizione, si mostrasse  umilmente affranto per l’accaduto; così da suscitare nell’autorità coinvolta quella forma di pietismo sempre ben accetta, che gli avrebbe risparmiato valzer di battipanni e ciabatte volanti.

Ma più passavano gli anni e la vita andava logicamente trasformandosi … quel bambino, dal grembiule immacolato e dal fiocco ingombrante, diventava sempre più selvaggio ed arrabbiato con quel suo piccolo mondo circostante; fino a quando un Alessio adolescente lo aveva definitivamente ucciso, durante quel compito in classe,  in quel tema dal titolo scomodo.

E ancora oggi  il cinquantenne Pangalli non aveva ancora del tutto perdonato quel bambino ruffiano e paravento, reo – a suo dire- di avergli rubato la felicità.

Fu dunque per questa ragione che in quella notte così strana ed imprevedibile lui fece un gesto del tutto incomprensibile, prese tra le mani quella cornice impolverata e la scaraventò con sdegno contro il muro di quella stanza.

Era come se volesse dimostrare di essersi affrancato per sempre dall’ingombrante presenza di quel demone del passato; era come se volesse togliersi una volta per tutte di dosso quella maschera di ferro che indossava da anni per nascondersi dalle” rogne” e da tutta quella sporcizia che lo stava lentamente sommergendo.

Ma quei mille cocci prodotti in quell’attimo di estrema fragilità non avevano fatto altro che rattristarlo maggiormente, era sempre prigioniero di quella strana malinconia che lo tallonava a vista e si guardava bene dal lasciarlo in pace. Era talmente sopraffatto da quella strana atmosfera che si andava respirando in quella piccola villetta, da non comprendere fino in fondo il perché di quella sua inquietudine in quel giorno che in fin dei conti doveva solamente decretare un nuovo “patto “ di non belligeranza e di convivenza forzata con la sua maturità, giunta ad un traguardo importante, una ragguardevole fandonia …  mezzo secolo di allucinazioni e di mezze tragedie.

Che strane sensazioni stava provando Alessio! Emozioni contrastanti che per la prima volta erano riuscite a far traballare il suo equilibrio; era come se il suo stesso baricentro fosse stato espugnato violentemente da una forza oscura che di lì a poco lo avrebbe senz’altro condotto sull’orlo di un precipizio virtuale.

Fino a quando si ricordò di quel pacchetto di carta dorata, chiuso da quel fiocco bianco, candido come la neve , che aveva abbandonato con stizza in un angolo buio di quel piccolo salotto. Lo prese tra le mani e, con poca eleganza – per meglio dire - con tangibile avidità, quasi con una certa arroganza, si affrettò a scartarlo e con piacevole sorpresa vi trovò sistemata, con gran cura,  una copia di pregevole fattura, “ dell’Egmont” di Goethe.

Un’opera, musicata anche dalla fantasiosa creatività di Beethoven, in cui venivano elogiati eroismo e sacrificio di un aristocratico Fiammingo, che, durante la repressione spagnola, attuata dal Duca di Alba nell’anno 1568,  rinunciò alla sua stessa vita per manifestare la sua innata devozione ed il suo profondo attaccamento alla Patria olandese.

Per il Pangalli quel libro aveva la stessa magia della “madeleine” di Marcel Proust … una dolce memoria involontaria che lo accompagnava,mano nella mano, tra le braccia del ricordo di Frau Muller; la sua insegnante di tedesco.

Un cielo azzurro, avvolto da quella calura estiva, così insistente e soffocante, danzava attorno a quella chiesa dall’anima germanica, in quella strada dal sapore antico … per quel solenne “Ultimo Saluto” dal sapore strano.

Quanta folla! Eppure Alessio si sentiva fastidiosamente solo in quelle quattro mura dalle tinte barocche che piano piano gli toglievano il fiato.

E lui si domandava più volte dove fosse Dio …

Si guardava attorno in quella stanza semi buia, ricordandosi di quell’Angelo sorridente …  e i suoi diciotto anni erano ormai alle spalle.

La sedia era tristemente vuota e nel cassetto di quella cattedra aveva nascosto Fichte : il finito cercava l’infinito!

Parole belle parole si frantumavano nell’aria; mentre il ministro celeste si apprestava a lenire, con una specie di conforto studiato a tavolino,  quel dolore silenzioso.

Ma quel Volto di donna – la sola che lo aveva davvero capito fino in fondo-fuggiva stremato dalla natura, perfida matrigna …  Frau Muller era stata per Alessio una ipotetica bussola, quel punto fermo che solo la piena consapevolezza di una donna poteva rappresentare con fierezza e giudizio.

E lui il giorno dopo ci sarebbe stato ancora e quindi cercava – come un ossesso- di trattenere con rabbia il più possibile, perché il domani, come fiume in piena, avrebbe travolto il tutto senza produrre alcuna colpa riscontrabile.

S’intonava con malinconia un canto nuovo quasi di speranza: il PARADISO era vicino. Ma chi poteva affermare veramente di averlo veduto?  La suora del catechismo o l’insegnante di religione?

Con passo compìto e composto si allontanava in punta di piedi quello scrigno color della semplicità che imprigionava a tradimento un giovane cuore – del tutto ancora vergine di cattiveria- che avrebbe potuto avere nuovamente l’opportunità di giocare a dadi con il suo stesso destino. Una giovane vita che senza ombra di dubbio avrebbe ancora regalato emozioni importanti.

… Così il Pangalli, assorto nella sua genuina incredulità, si interrogava con astio sul perché un ragazzino ancora acerbo avesse dovuto assistere a quello sciacallaggio voluto dalla medesima natura. Si domandava il motivo per cui quello stesso ragazzino dovesse farsi recidere il cordone ombelicale una seconda volta. Ma dov’era Dio?

Alessio era estremamente romantico e folle allo stesso tempo; tanto è vero che pensava che tra la terra ed il cielo ci fosse una piccola porta rossa che nascondeva mille meraviglie …  E allora socchiudeva gli occhi; immaginando che il dolce sorriso di Frau Muller: donna, madre, moglie e amica speciale avesse varcato la fatidica Soglia. Una lacrima solcava il suo viso, mentre il suo cuore gridava afono quel pallido auf wiedersehen.

Povero Alessio! In quella notte, che stava passando dal diciannove al venti marzo; la sua testa dava forfait in tutti i sensi. Era come se in essa agisse una ragnatela di fili metallici in grado di castrare ogni suo pensiero, ogni sua emozione.

 Le date, gli eventi , i ricordi; nonché gli arrivi e gli adii si stavano affollando con grande prepotenza  nel recinto di quelle ”belve” silenziose, potenze oscure –manipolatrici seriali-  pronte ad  esercitare la forma più subdola di prelazione. Tanti angeli avevano  riempito il suo cielo, anime belle la cui vita si era intersecata in un fantasioso cammino comune lungo la strada della conoscenza. Il piccolo salottino di quella villa d’angolo – al “Villaggio dei Pini”- era vuoto ormai; ma era talmente rivoluzionato da sembrare un campo di battaglia, dove le nevrosi umane avevano fatto a botte con ogni forma di buon senso: tra calzini nel porta caramelle e mutande che piovevano dal lampadario … per non parlare di quel divano retrò che pullulava di bottiglie vuote di limoncello. Perfino il gatto Pancrazio, trovatello leggermente in sovrappeso, aveva alzato il gomito ed ora russava come un pascià in un piccolo angolino buio avvolto in quel cachemire verde acqua del suo adorato padrone.

Capitolo Secondo

Alessio era talmente partito di testa che aveva, con un pennarello indelebile, deturpato quel quadro di famiglia sistemato – alla maniera di una piccola “vedetta Lombarda” – sopra quel plasma formato cinema.

Dipinto che rappresentava, fiero nella sua divisa, il buon e caro comandante Gedeone Pagnozza, prozio di sua madre Bruna e per la proprietà transitiva suo avo lontano anni luce.

Un marcantonio con due baffoni alla “Peppino”, così tanto abituato a condurre il suo piccolo esercito di disperati, da trattare il mondo che lo circondava come una sorta di caserma universale da plasmare a sua immagine e somiglianza.

Per i suoi modi alquanto aristocratici ed eleganti ricordava il “ Colonnello Edmondo Bernacca”: poteva venire qualsiasi cataclisma, ma lui imperterrito, con la sua bacchettina d’osso e la cartina dell’Italia – come il melenso “Maestro Perboni” del libro “cuore”- da vero divo, tirava dritto e alla fine, facendo lo splendido, ti consigliava di uscire con l’ombrello.

 Anche se il Pagnozza ricordava pure “ Ernesto Calindri”; grande attore di teatro, che per la generazione di Alessio era semplicemente “ Mister Logorii della vita”.

“Il Re dei carciofi” insieme, alla vecchia Natalina, non la colf del prete, ma la furba nonnina, che, con Manfredi e il suo caffè, si era fatta la villa … rappresentavano l’essenza di quegli anni settanta e di quegli anni ottanta, che avevano fatto di Alessio … la persona che alla fine era diventata.

Gedeone Pagnozza era un vecchio comandante in pensione che abitava in una soffitta spartana, situata in via dell’Oca al civico 17, nella Milano dabbene.

La sua soffitta si trovava nel condominio “ la Ginestra”; che faceva parte del vasto complesso residenziale “Pino Selvaggio”.

Gedeone viveva tutto solo nella sua piccola bomboniera, perché sua moglie donna Gertrude era passata a miglior vita da più di vent’anni.

L’unica donna che aveva una sorta di lascia passare per varcare ancora quella zona militarizzata era Filomena Belfiore, badante tutto fare, votata all’abnegazione più totale, magistralmente devota, come uno zerbino gioiosamente tutto da calpestare. Mena – per gli amici- era la sosia perfetta della mitica signora Luisa, la vamp della pubblicità anni 80 … grande pulitrice di gabinetti, in quanto lei ci metteva gran vigore e un detersivo miracoloso.

Il vecchio soldato a 89 suonati era davvero un grand viveur. Ringalluzzito da quella sua profetica caramellina blu, ogni sera prendeva la sua Gilda, la sua fedele Bianchina, per andare a sollazzarsi e a rigenerarsi con la benefattrice di turno.

Ma il buon Gedeone era conosciuto dalla Madama, perché aveva quella strana abitudine di  appostarsi, quatto quatto, dietro i cespugli del parco Piaggetti. E vestito solamente di quel corto accappatoio di spugna nera amava mostrare la sua virilità, spaventando le sventurate coppiette, al grido di banzai.

Perfino i servizi sociali avevano tentato di redimerlo ad ogni costo, ma invano. Infatti la prima assistente sociale, dopo uno scontro  corpo a corpo, si vide sfilare di dosso la gonna a tradimento, restando - per l’ilarità generale-  in mutandoni arcobaleno.

Mentre il secondo assistente dovette subire l’onta di una specie di supplizio di Tantalo, il suo lobo destro veniva strappato a morsi voraci  dalla dentiera un po’ perversa del nostro attempato zuzzurellone.  Mike Tyson docet!

Insomma il caro Gedeone non era altro che un gran  “sagoma” fuori come un balcone. Sicuramente un po’ porcellone, ma una simpatica canaglia da rinchiudere in una struttura protetta; dove sarebbe stato certamente l’anima della festa.

Purtroppo quel cinque maggio di un anno prima … in un pomeriggio piovoso il nostro” Bonaparte alla amatriciana” salutò i suoi fans in modo assai rocambolesco.

Tutto accadde sul cornicione del condominio la Ginestra ; mentre, cannocchiale tra le mani, il buon Gedeone stava spiando le grazie della giovane Teresina, la domestica della famiglia Persichetti. Per una banale distrazione il vecchio mandrillone perse l’equilibrio e cadde nel vuoto.

Da quella sciagura l’unica trionfatrice fu Mena Belfiore, prima badante … oggi ereditiera a nove zeri. Infatti la donna era talmente entrata nelle grazie di quel maialone, che in quattro e quattr’otto si ritrovò padrona della soffitta, titolare di un ricco conto in banca e dulcis in fundo pilota della irrinunciabile Bianchina, l’amica devota dell’Ugo nazionale.

Insomma in quella casa ovunque si posava lo sguardo … si andava ad imbattersi in una mostruosa falla declinata al maschile e quel maledetto pendolo impolverato non faceva altro che evidenziarla impietosamente con i suoi battiti atroci ed implacabili.

Alessio era distrutto, non era mai stato così sfatto in vita sua. Spettinato, trasandato nel vestiario e colpevole di un fetore senza precedenti, misto di vomito, alcool e nicotina.

Di  quel “fighetto anni 80” non c’era più traccia! Era rimasto solamente la pallida copia di un povero cretino alla deriva.

Di certo non si sarebbe mai aspettato in quella notte- alla boa del suo mezzo secolo di vita- di dover mettersi di fronte a se stesso e di dover combattere un’ardua ed assurda battaglia contro i suoi fantasmi; scoperchiando una volta per tutte quel fetido pentolone di fastidi, di menzogne e di verità mai confessate.

Il Pangalli era fondamentalmente un gran vigliacco, una macchietta disgustosa che della fuga ne aveva fatto una sorta di mantra esistenziale e quando non fuggiva giocava di buon grado la carta delle “Tre Scimmiette”.

E mentre la sua testa incasinata compiva questo volo pindarico di considerazioni e si dannava nell’annoso tentativo dello sconfiggerle ad ogni costo; gli venne improvvisamente alla mente Lorenzo, un ragazzo non ancora ventenne, conosciuto durante un periodo di studio nel capoluogo Piemontese.

Lorenzo era stato uno strano incontro, che nella vita gli sarebbe capitato certamente una sola volta. Una piccola ed inaspettata sorpresa piovuta dal cielo quando meno se l’aspettava. Conoscere questo ragazzo era stato per Alessio come risvegliarsi in un sogno confuso; quasi una piacevole allucinazione in cui si fermava a sentire il respiro di un Angelo triste, perché aveva sporcato le sue ali … ed era pronto a precipitare nel suo inferno.

Gli aveva permesso di guardarsi dentro, di cercarsi con frenesia e alla fine di riscoprirsi un “Bastardo” qualunque che si era venduto per due lire al primo incantatore di serpenti, che gli aveva donato quella falsa illusione di essere felice, quando in realtà non si sentiva altro che uno zero assoluto in un plotone di numeri primi.

Si erano conosciuti a metà degli anni Novanta a “Gianduia City”, una città forse un poco ruffiana; ma che alla fine ti sapeva prendere per eleganza e magia.

Avevano condiviso per circa due anni una “stamberga” nei pressi di Piazza Statuto che stava in piedi per miracolo, vivendo a stretto contatto con le loro piccole cose di un quotidiano, fatto di gioie e di dolori.

Come quando rimanevano basiti – camminando per via San Domenico – nel vedere quel tizio alquanto naif, ricoperto solamente dal suo lucido “Moncler”, che portava fiero a spasso i suoi “gioielli di famiglia”. Erano rimasti, la prima volta, così scossi nell’assistere a quell’inaspettato siparietto, così esilarante, che si aspettavano, all’improvviso, che un Tizio o un Caio qualunque venisse dal nulla gridando: “ complimenti .. siete su Scherzi a Parte!”

Il perché della loro amicizia era molto semplice a spiegarsi, si erano piaciuti subito per la loro semplicità; entrambi forse avevano conservato un poco di quella genuina e sorniona fanciullezza che permetteva loro di vedere il mondo a tinte tenui.

Alessio vedeva in Lorenzo una creatura malinconica che amava giocare con la propria esistenza sul filo del rasoio!

Gli ricordava la figura del buon René, creatura ben plasmata dal Romantico Chateaubriand, un pallido eroe stanco delle sue stesse battaglie che, boccheggiando nelle piccole e grandi tragedie della vita, si era fermato a quella grande finestra e, come candela disillusa, andava dolcemente annullandosi in quelle emozioni senza tempo. Per Alessio era certamente difficile – se non quasi impossibile- non rimanere affascinato dal modo di essere dello stesso Lorenzo. Lui, nella sua silenziosa genialità, appariva quasi come un vero  “dandy” anni novanta al mondo circostante! Peccato solamente che i più non erano per niente in grado di leggere ed interpretare la sua medesima malinconia; in questo modo il più delle volte non facevano altro che castrargli l’anima … avvelenandogli così in maniera irreparabile il suo paradigma esistenziale.

Inoltre il Pangalli era rimasto assai folgorato dalla capacità innata di quel ragazzo, non ancora ventenne, di giocare con i tratti a matita, i colori ad olio, la prospettiva geometrica e ogni forma di chiaro–scuro ; l’eterno dilemma artistico tra luce ed ombra. Invidiava –in modo sano e mai malato- quel suo talento indiscusso; perché in quei tratti, così delicati e ben ponderati, vi leggeva sicuramente le emozioni più belle e toccanti che un cuore ferito potesse mai generare …

Nei suoi schizzi, nei suoi disegni, infatti, sembrava che ogni suo soggetto uscisse dalla tela o dal foglio e che prendesse forma, annullandosi a sorpresa - anche abbastanza prepotentemente- nella sua angoscia; dove frustrazioni e sconfitte camminavano le une accanto alle altre, in un silenzioso “corteo funebre”!

Lorenzo era roso dentro da un tarlo difficile da debellare, perché era nato e cresciuto con lui: un padre autoritario ed ottuso da tarpare quelle sue giovanili aspirazioni, bollando il tutto come la più patetica farneticazione di una gioventù pigra e lazzarona; che si faceva venire il vomito solamente sentendo pronunciare l’orripilante parola “lavoro”!

Non riusciva di fatto ad apprezzare fino in fondo quel suo dono così grande e speciale che il buon Dio aveva deciso di affidargli.

Anzi faceva veramente di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote e per fargli sentire la sua inadeguatezza; era arrivato perfino ad innalzare un evidente muro di gomma che li divideva in modo inesorabile.

E alla fine di quella guerra di nervi quel buon padre di famiglia era riuscito, con astuzia e crudeltà, a farlo desistere dai suoi sogni d’artista; facendolo marcire in quel grigio Politecnico a Gianduya City.

Alessio aveva ben compreso che Lorenzo aveva avuto per sua disgrazia due genitori che- purtroppo- erano stati freddi e distaccati; preferendo puntare il tutto per tutto sulla loro realizzazione professionale.

E non importava se gli avevano garantito una vita comoda ed agiata da piccolo Lord inglese, il fatto decisamente più disgustoso era stato quello di avergli negato la consapevolezza di essere amato e ben voluto.

Ma nonostante tutto ciò; era stato vezzeggiato e coccolato da quella nonna, che per lui, non aveva che rappresentato una specie di buona e di saggia madre di riserva.

Proprio questo suo ciarpame di esistenza aveva fatto sì che lui stesso si andasse perdendo in un mondo parallelo, malinconico e cupo; in cui la luce della verità e quella della libertà si stavano spegnendo lentamente.

E il povero Pangalli aveva una paura fottuta per lui; perché giorno dopo giorno lo vedeva perdersi nella sua dannazione, svendendosi – per noia e per disperazione- a quel Vizio Bastardo che, senza accorgersene, lo stava trascinando nel baratro, gli stava succhiando anima … cuore e cervello.

Ogni maledetto istante … che quella demoniaca clessidra esistenziale lo torturava; “Ale” lo vedeva sempre più triste precipitare nel nulla.

Lorenzo non si accorgeva nemmeno più di chi gli stava attorno e di certo non vedeva affatto la mano tremante, che, invano, un vinto Alessio cercava di tendergli ad ogni costo.

Voleva trattenerlo a sé, con tutta la sua rabbia ed impotenza; ma lui era come quel palloncino rosso acquistato alla fiera del paese che gli scappava di mano!

Lorenzo riusciva a farsi amare anche nelle sbavature più vistose del suo carattere e del suo modo di porsi agli occhi altrui; perché possedeva quella dolcezza interiore che gli rimaneva appiccicata addosso come la “coperta” di Linus.

Eppure era come una bomba ad orologeria – innescata da quel suo folle desiderio- di una “creativa” autodistruzione … lui nella vita prediligeva l’acceleratore al posto del freno a mano.

Ma era una bella persona   …  l’ultimo nostalgico tra i sognatori : quel poeta silenzioso – che sotto quel salice piangente- tentava di scrivere le pagine più belle del suo romanzo interiore, cercando di evaporare nel nulla.

Alessio ripensando a Lorenzo era pienamente consapevole che le loro strade si erano solamente intersecate per due anni … veloci e frenetici; anni in cui la stupidità giovanile aveva portato loro a divorarsi la vita a grandi morsi; senza gustarsi a pieno la loro vera essenza.

Però il Pangalli era anche convinto che un incontro, una persona veramente sentita, vissuta e divorata, lo avrebbe senz’altro accompagnato fino alla tomba; perché era come un vestito cucito a pelle … di buona fattura:  lo avrebbe quindi avvolto con calore, valorizzato e fatto sentire più “figo”!

E il giovane ricordava ancora con vera gioia quel Natale di metà anni Novanta quando un Lorenzo – ancora sconosciuto- con quel suo sorriso malinconico gli donava quel prezioso regalo inaspettato, lasciandolo senza parole.

Un gesto che lo aveva conquistato perché non calcolato … il sigillo definitivo di un’amicizia nata per caso .

Alessio, in preda a quel suo scombussolamento interiore, mentre si guardava- completamente sfatto e sgangherato- allo specchio; non poteva fare altro che odiarsi profondamente.

Nella sua alquanto piatta vita amorosa, l’ennesima débacle all’orizzonte.  E l’incauto trofeo di una caccia assurda primeggiava, affannosamente, nello squallore di quel monotono déjà vu!

La sua giovane mente, da assuefatto piccolo borghese di vedute assai ristrette, appariva sempre più turbata … confusa  e non faceva altro che vomitare, a tradimento, parole allucinate, che andavano ad incastonarsi in una lettera …. Una sorta di misterioso grido d’aiuto in attesa di un salvifico e profetico salvagente!

“Mi sono venduto ai pensieri più neri di un giorno senza fine; di una notte depauperata da ogni emozione propria.

Non ho più lacrime che bagnano questo mio cuore arido ed affranto.

Morta è ogni sensazione dentro di me!

Maledico me – con estrema dolcezza- mentre affondo in questo mare di nostalgia negata …”

Il giovane e sprovveduto Pangalli più si guardava riflesso dentro quello specchio logoro e scheggiato … più riaffioravano quelle mille ostilità che piano piano lo avevano trascinato in un labirinto senza fine; in una trappola per sorci, sempre pronta a funzionare e a fare la festa al miglior offerente.

 Di certo, Ale, si stava accorgendo a sue spese di quanto la sua stessa anima risultasse sdrucita; di quanta immondizia si nascondesse dietro quel suo volto perso.

Difficilmente la sua indole, così glaciale nei confronti del sentimento altrui, avrebbe potuto lasciarsi sedurre da quella strana voglia improvvisa di un benefico pianto liberatorio.

Ma in quella dannata circostanza, così poco definita e decisamente sorprendente, il suo pianto, oramai era previsto  copioso.

Quindi senza pudore e particolare remora; la bizzarra fantasia  scendeva su quel volto ancora vagamente fanciullesco; soprattutto lungo quelle gote d’alabastro, aspettando in silenzio di essere accarezzate e ben comprese.

E allora in quel piccolo mondo a parte- fatto anche di castelli in aria – si annidava beffarda  l’ombra patinata di Barbara Persiani … la sua compagna di liceo; la classica ragazzina sciocca di provincia che lo aveva sedotto, usato e poi abbandonato.

Lei frequentava la sua stessa scuola, non per merito o perché possedesse un cervello fruttuoso o degno di nota , capace di portare a termine una simile impresa … ma semplicemente per casta!

Barbarella, come la chiamava affettuosamente il professore di filosofia, era l’improbabile ed imbarazzante figlia del leggendario notaio Guido Persiani; omuncolo avido e gran porco di professione: un nome, una garanzia per quel piccolo ed inutile circo di provincia … dove falsità ed ipocrisia erano all’ordine del giorno!

Sprovvista di morale propria e di ingegno umano, la poverina, cretina per vocazione, campava a sopravvivere glorificandosi con il mondo intero per quel suo corpo da pin-up e per quella sua fisicità tanto discutibile: alta, slanciata … le provocanti forme al posto giusto  in uno spettacolo di piacevole idillio; che suscitava i più bassi istinti animaleschi di chiunque – per sfortuna sua- si trovasse a suo gentil cospetto.

Nel piccolo borgo la Barbarella era conosciuta con l’appellativo di “farfalla” …  infatti leggiadra non disdegnava affatto di passare con gran disinvoltura da fiore a fiore per cercare il polline migliore!

Quanta gioia e quanta gradita beneficienza aveva dunque elargito nella sua pur breve vita!

La sua giornata tipo – a parte parcheggiarsi cinque ore dietro un banco di facciata la mattina- consisteva in una stucchevole autocelebrazione del suo ego smisurato … nella venerazione estrema di quella sua “paciosa” femminilità, disarmante ed ammiccante allo stesso tempo.

Il pomeriggio “chérie “ , la giovane Persiani, trascorreva tre noiosissime ed interminabili ore in una palestra di lusso per modellare cosce e glutei; affinché quella sua carne soda ed accattivante, non provasse l’onta e la vergogna di un tragico ed inevitabile declino “nella valle della mediocrità”.

Immancabile nel carnet di Barbara il the delle cinque rigorosamente sorseggiato alla caffetteria del centro -  quella più chic del luogo- dove il pettegolezzo veniva servito su di un vassoio d’argento!

Naturalmente come una vera vip che si rispetti … lei non compariva mai da sola sul luogo del delitto. Alessio restava sempre la sua prima scelta perché era una specie di “Vitellone Felliniano” da mostrare in pubblico con orgoglio. E poi lo aveva addomesticato così bene ad ogni suo capriccio e ad ogni sua perversione, che era così divertente vederlo scodinzolare davanti a lei, in cambio di due coccole e due grattini!

Se Alessio dava forfait all’ultimo, Barbarella non si perdeva di certo d’animo e tirava fuori dal suo cilindro il buon Giorgio, che le ricordava il “Pierre Cossò “ del “Tempo delle mele”; a suo discapito il fatto che tartagliasse peggio di una mitraglia e che per frequentarlo doveva munirsi o di un ombrello – possibilmente formato famiglia - , oppure di un buon impermeabile.

E poi sul suo libro-paga c’erano Carlo il ganzo, con la sindrome dello zerbino, Gianni il tirchio … boia mondo ci fosse stata una volta che quella adorabile  zecca avesse avuto per sbaglio il portafoglio con sé! Asso nella sua manica Michele il perfettino, pareva avesse studiato con profitto dal detective “Adrian Monk” … Ciliegina sulla torta il nauseante Piero, il figlio del Santoni, impresario funebre di grido. Narcisista seriale, così tanto innamorato di sé, che aveva assicurato ogni parte del suo corpo e che aveva perfino già firmato un accordo per farsi ibernare  e ritornare poi a splendere di nuovo in un futuro prossimo!

Ma “Lady Barbara” era una ragazza dal cuore d’oro e amava aiutare con ardore il suo prossimo e quindi –come una buona madre di famiglia – portava a turno nel suo “Piccolo Paradiso” un membro della squadra di calcetto del paese, in questo modo il fortunato prescelto avrebbe potuto gioiosamente sollazzarsi con lei su quella giostra!

 Chiunque partecipasse- nolente o volente- alla sacralità del rito delle cinque si vedeva poi obbligato ad accompagnare la figlia del notaio Persiani nella via centrale di quel covo di vipere invidiose; cosicché “Chérie”, gongolante del suo essere donna, potesse mostrare al mondo e ai suoi fans quanto di buono la natura le avesse donato.

Per Barbarella il tempo andava incalzando e quindi, dopo aver concesso lo straordinario onore di una sua indimenticabile passerella e dopo aver stuzzicato i pruriti di quei quattro cafoni arricchiti, tornava beatamente sorniona nel suo caldo nido.
La dimora Persiani più che una casa non era altro che un grande e lussuoso albergo cinque stelle: gente che entrava; gente che usciva ad ogni ora del giorno.
Qui in queste mura di amorale perdizione, la ragazzina si faceva quattro salti in padella e poi come la “Marylin dei Poveracci” subito in bagno, pronta per il restauro! La nottata era tutta sua!
Alle venti e trenta minuto più minuto meno, una cabriolet grigio metallizzato l’aspettava con estrema devozione nell’angolo più buio della via, lontana da occhi indiscreti e domande alquanto imbarazzanti e ridondanti.
E lei, la regina della notte, come una cenerentola senza orologio, alle quattro del mattino, annunciava il suo rientro, scendendo da un fuoristrada giallo “ Titty il canarino” e cantando a squarciagola una “tenera melodia”; come fedele “Baccante” … ancella devota del buon e vecchio dio Bacco!
Barbarella era solita, come da copione, al sabato … disdegnare l’impegno scolastico, poiché urgeva l’irrinunciabile appuntamento con Fabrice, il coiffeur … amico e confidente. E sia mai, crollasse il mondo, che un sabato lei potesse rinunciare a questa goduriosa necessità!

I suoi capelli erano una priorità a prescindere, era vitale per lei trascorrere il sabato al salone di bellezza: la sua chioma doveva passare ad ogni costo da quel biondo paglierino, oramai demodé, a quel rosso acceso … da professionista titolare indiscussa di quel palo17!
Generalmente il week-end era per la giovane Persiani l’occasione migliore per frequentare quella beauty farm all’ultimo grido … ma soprattutto l’occasione più ghiotta per sedurre – in incognito- l’ultimo sventurato di turno!
Eh sì! Avere una relazione stabile e sicura con la dolce Barbarella significava non solo assicurarsi un piccolo crack finanziario; ma principalmente mettere in preventivo l’acquisto certo di un pacchetto completo di sedute terapeutiche presso un buon psicoterapeuta, nella speranza più rosea di aver quel colpo di sedere per ritrovar se stesso!
Accadeva in una fredda notte di dicembre, mentre la nostra Barbarella, rintanata sotto quel piumone di oca giuliva, guardava un film col bel Di Caprio. All’improvviso la svolta! Una scritta piccola, piccola scorreva frettolosa ed intrigante su quello schermo piatto, ultimo modello. Si cercavano, infatti ,nuovi talenti per una serie televisiva. Era gradito un bel personalino!
Così l’indomani, zaino di Prada in spalla e tra le mani una fetta di pane con la nutella, la nostra piccola eroina era seduta su quel pullman di terzo livello: direzione una vitale ed accattivante Roma  capitale!
La noia più nera sembrava accarezzare quel viaggio interminabile. Ma in una stazione, dimenticata da Dio, lo sguardo seducente di quella “Bovary nostrana”, scrutando oltre quel finestrino sporco di cacca di uccello, incrociava uno sguardo languido e malinconico di un giovane ragazzo trasandato.
Com’era diverso quel seducente vagabondo! Capelli corvini, lunghi … portati ribelli fin su quelle due spalle ben messe … occhi verdi come lo smeraldo più puro, tristi, dannatamente tristi. Vicino a lui una vecchia chitarra malconcia.

Non era certo uno di quei soliti viziati figli di papà, ai quali lei stessa si era concessa più volte, per noia e per vanità, a cuor leggero!
Il pullman si fermò come per magia e Barbarella, per la prima volta, agì dunque d’istinto … non pensando al suo proprio tornaconto … MIRACOLO!

Raccolse il suo zainetto di Prada e senza pensarci corse incontro al vero amore!
Nel piccolo e stonato borgo di plastica nessuno la vide più! E quei pochi che giurarono di averla incontrata … dicevano di averla veduta in giro per l’Europa, nelle piazze delle più importanti capitali: il pallido cavaliere servente suonava con quella chitarra sgangherata melodie di cuore e lei leggiadra, come l’ultima étoile, danzava sulle ali di una ritrovata felicità, finalmente libera di essere realmente se stessa!

Alessio, pallido come un cencio, era sempre là ! ostinatamente immobile e prigioniero della sua immagine, come un fantasma in cerca della sua eternità!

Folle pazzia di indigesti frammenti; susseguirsi disordinato di fastidiosi momenti di blanda serenità, vigliaccamente ancorati in un’anima grondante di una utopica malinconia!

Ricordi indelebili di un letto sfatto nella breve passione di uno sbadiglio, mentre i respiri, che prima si cercavano nell’intrigo benevolo di quella voglia primordiale, andavano lentamente morendo nella penombra appassionata di quella timida candela, che illuminava- a sorpresa- quel drappo orientale che odorava di zenzero e di vaniglia.

Due corpi sudati, uniti in una musica senza tempo, ballavano increduli in quei brividi di puro tormento e di meravigliosa estasi reciproca; contemplandosi nelle stonature forzate di quella melodia inaspettata!

Lei, tenera più che mai, lo prendeva per mano in quel malizioso gioco di sguardi maldestri, trascinandolo in quella ragnatela metallica di un teorema votato all’assurdo; umiliandolo con quella malefica sciarada di baci convulsi, sperando invano in un semplice “ TI AMO”.

E lui, gran bastardo di professione, si lasciava accompagnare nella menzogna più nera di quell’isola che non c’era, perché troppa era la paura di risvegliarsi l’indomani in un freddo letto vuoto!

Il Pangalli – che il Cielo lo fulmini- si toccava freneticamente le carnose labbra; quelle stesse labbra che si saziavano – boriose- di fresca ipocrisia giovanile: tanti inutili “ TI AMO” più simili ad affilati coltelli; pronti a squarciare, di gran carriera, l’inconsapevole preda di turno … una carcassa di beltà vestita, da mostrare, con fastidiosa tracotanza, al mondo intero.

Mentre ,lei vittima perfetta, era solo una povera creatura predestinata alla follia d’amore! E certamente, vogliosa com’era, avrebbe dunque fatto di tutto per lui; perfino vendere la sua acerba essenza al primo Mefisto qualunque, che avrebbe strizzato l’occhio per una notte esplosiva di fuochi d’artificio! Affinché il suo tarlo amoroso si potesse così concretizzare in un grido assoluto di passione ancestrale, senza limiti e senza confini …

A lei, infelice ed illusa fino al midollo, non pesavano affatto quei quindici anni di differenza; non le interessavano per niente le risatine dei ben pensanti e le frecciatine assai velenose di un Alessio scostante e maligno.

Lei implorava semplicemente amore; anche un amore fasullo … un amore di circostanza, insomma anche una squallida liaison di plastica la poteva soddisfare!

E lui, barbaro invasore, anche un po’ puttana, lo sapeva benissimo … e così ci giocava a più non posso! Solo sesso chiedeva; un gioco a due, di perversioni reciproche, dove quell’anima debole e bramosa d’amore, “la Boccalona del giorno” per intenderci, cercava quell’esplosione incontrollata di sensi galeotti, in grado di innescare una calda caccia al tesoro senza precedenti! Insomma un piacevole parapiglia di piccole schermaglie da consumarsi – preferibilmente- sotto quelle lenzuola di seta nera …

Del resto lo stesso Ale nella sua diabolica infelicità non era certamente capace di manifestare fino in fondo uno straccio di trasporto emotivo. Era come se quel giovane virgulto vivesse ogni suo amplesso in una sorta di palestra virtuale; dove proprio lui era l’atleta di punta; l’uomo dei record!

 

CAPITOLO TERZO

E così la grande notte delle “verità nascoste” proseguiva a ritmo serrato; come se gli stessi eventi fossero sparati a raffica da una macchinetta spara palle.

E in quello specchio di avvolgenti amarezze e di fini trabocchetti, non si materializzava altro che un infingardo labirinto di ricordi funesti, che andavano lentamente frantumandosi nel sorriso spento di un ragazzotto benestante, automa di se stesso.

Era dunque stata lei, Barbarella, la parte tarata dei suoi primi trent’anni! Quell’assurdo complotto di anime perse, che si svestivano della propria moralità, per intraprendere una lunga ed estenuante cavalcata alla conquista del loro vello d’oro!

Quel loro primo e furtivo incontro,forse voluto da un destino beffardo, avveniva in quel giardino fiorito, che costeggiava, in un dolce abbraccio, le antiche mura della stessa chiesa in onore di Santa Anastasia.

Vivo era il sorriso di lei, vestita a festa, in quell’abito corto a pois blu. Un fiore tra i capelli e quella bionda tra le dita ingioiellate. Lei, gradevole ed appetibile, era seduta su quella panchina di cedro antico, mentre, con civetteria, si apprestava a sistemare quel trucco cascante.

E lui spavaldo, come quella orrenda fiera in attesa di concupire la sua sventurata preda, si avvicinava guardingo e, senza proferir parola, le sfiorava la tremante mano.

 Le sorrideva, ammiccando proposte indecenti, fino a quando era sicuro che quelle fragili barriere di difesa non fossero state pronte a crollare in modo definitivo e lui potesse calare il suo asso nella manica.

Alessio aveva vinto un’altra volta! Come godeva il Bastardo … dentro di sé! Quel parassita dell’amore aveva trovato un’altra volta la chiave giusta per scalfire l’ennesimo cuore bisognoso d’amore! E adesso festa! Con una mano impudente le accarezzava la chioma corvina e con quell’altra libera le sbottonava, uno ad uno, quei bottoni di madreperla che impreziosivano quella camicetta bianca in san gallo.

E lei ubriaca, più che mai, dolcemente ferita da quella freccia di Cupido; dipingeva quella tela ancora vergine!

 Come scivolava lento, ma deciso, il velluto della sua giovane mano, che, come in una danza propiziatoria di un popolo lontano, esplorava goduriosa quel possente corpo semi nudo di un Pangalli tronfio, alla scoperta di una rinascita personale, nell’atrio più segreto di un’ Afrodite ritrovata!

Ricordi brevi, istanti atrofizzati in quelle rugose pieghe di uno specchio mendacio!

Alessio era stanco, tremendamente stanco! La sua immagine riflessa lo infastidiva a tal punto da succhiargli  linfa vitale a tradimento!

Era ormai una specie di larva umana, che, per pigrizia e per paura di restare solo con se stesso, si attaccava, con morbosa ossessione, all’amore di lei, sperando in una pesca miracolosa!

Ma proprio quel dannato san Valentino gli era stato fatale!

 Lei vedeva lui per la prima volta; lei finalmente lo poteva percepire per quello che realmente era. E subito, quei mille e mille castelli, in aria di armoniosa progettualità, andavano sgretolandosi in un doloroso addio, vestito di rimpianti e di verità inconfessabili.

Lui, libero da ogni vincolo e mortificato nella sua vanità, accompagnava, mesto,  lady Barbara verso quel treno di libertà!

 Nessuna parola nell’aria, solamente mani che si stringevano forti e sciami di lacrime impazzite, che scendevano copiose nel silenzio di una colossale sconfitta, che sanciva di fatto la fine di una farsa lunga una stagione.

Ale, sfinito e vinto, si allontanava da quello specchio maledetto, e girandosi, di scatto, verso il suo sécretaire, secondo impero, si versava un cognac d’annata, premio consolatorio di un addio malinconico. All’improvviso, il ragazzotto vizioso afferrava un pesante posacenere in pietra e, con una grande veemenza, lo scagliava contro quel vetro profetico; maledetto specchio … piano piano – lui demone- gli aveva deformato l’esistenza e la matrigna di Biancaneve aveva avuto un’altra volta ragione!

 Si lasciò cadere a terra come un peso morto e si raggomitolò nell’angolo più buio di quella stanza opprimente, proprio come era solito fare da bambino, per sfuggire i tuoni e i lampi.

Ma la giovane Persiani non fu l’unico errore della sua vita amorosa; ci furono almeno altri due eventi “omologati” che dimostravano – a chiare lettere- di come Alessio Pangalli non sapesse amare; perché nessuno si era mai preso la briga di educarlo ad una sana affettività … lui era semplicemente un “ignorante” che leggeva l’amore come una semplice palestra; dove la prestazione contava molto più del sentimento!

La sua vita era sempre apparentemente trascorsa lieta in quella piccola cittadina di provincia, dove ogni cosa sembrava priva di volgarità, dove ogni sentimento si proiettava in modo benevolo ed avvolgente.

 E qui il suo primo capriccio, la sua prima schermaglia d’amore … si chiamava Camilla, capelli d’oro sulle spalle ed occhi cielo; che avevano quella strana magia di  farti sciogliere e di farti sentire un “vero cretino”.

Lei, la ventenne ancora acerba, fasciata nella sua salopette di jeans slavato, con quegli occhialoni retrò in finta tartaruga e quel foulard a tinta unita che le castigava – come in un dolce segreto- quella sua fluente chioma, stava dicendo addio per sempre a quella giovane studentessa, appena diplomata al conservatorio.

In quella afosa domenica di luglio si apprestava a lasciare quel nido  che l'aveva svezzata nel bene e nel male.

E così dopo aver raccolto i pochi brandelli della propria esistenza –lieta e timorosa allo stesso tempo- si avviò di buon grado alla piccola stazione...sicura in cuor suo di aver compiuto per la prima volta la scelta migliore per sé stessa e soprattutto per la sua sanità mentale.

 Era confusa, briosa come una mente desiderosa di apprendere e, non voltandosi indietro, nemmeno per sbaglio, salì sul treno, sinonimo di libertà.

Malinconicamente la cittadina, quasi per magia si stava piano piano allontanando e con essa andavano scemando anche i rancori e i
fantasmi di un passato ancora troppo recente; quando l’arroganza e la prevaricazione del suo ex la facevano sentire stupida ed inutile: una bambola da gonfiare e da sgonfiare a seconda delle esigenze e della convenienza del momento.

Camilla con la fantasia più fervida di un poeta ancora in erba cercava nella sua testa alquanto frastornata dagli stessi eventi … risposte sincere ed utili a quelle domande irrinunciabili sul suo domani.
Amore sincero cercava. Non era brutta, eppure la capricciosa Afrodite l'aveva sempre punita con passioni sbagliate, che istante dopo istante, l'avevano catapultata involontariamente in labirinti di lacrime e ostilità.
All'improvviso ecco apparire dal nulla lui Alessio Pangalli; presenza inaspettata ma più volte desiderata.

Era assai prestante in quella sua fulgida uniforme di aviere: lui era su quel treno che l’avrebbe condotto in quella caserma, dove avrebbe prestato e portato a termine il suo obbligo di leva.

Nessuna parola tra i due in quello scompartimento; solamente un intenso gioco di sguardi e di intese reciproche, improponibili ammiccamenti che andavano a turbare la vacillante moralità di quella zitella acida ed attempata che faceva l’uncinetto e sperava in cuor suo di essere violata almeno una volta nella sua misera vita fatta di certezze e banalità.


Improvvisamente il treno si arrestò, e il  giovane Pangalli, così fiero e snob nei suoi gesti, aprì lo sportello, sparendo nella poesia di una sera di mezza estate...

A questo punto Camilla raccolse la sua piccola storia e
seguì il suo cuore, scendendo da quel treno che in fondo le stava cambiando la vita.

Camminava... lei camminava contenta, come quel bimbo in cerca del seno materno, sicura di trovare una sincera risposta al suo bisogno di essere amata e vissuta come l’amore vero esigeva, senza fronzoli e soprattutto menzogne che il più delle volte offendevano la sua stessa intelligenza.

il ragazzo –quel Alessio Pangalli, da lei sempre venerato- entrò
in un grande parco...e proseguì lungo un viale costeggiato da un esercito di antichi cipressi; sembravano cecchini pronti a farti la pelle!

Fino a quando si trovò d'innanzi ad una porta dall'altero aspetto, che conduceva in un muto castello, appartenuto per generazioni alla sua stessa famiglia, ma erano anni che non lo frequentava più in modo assiduo. Forse perché timoroso o semplicemente per pigrizia!
E lei l'indomita Camilla, che aveva assistito impassibile ad ogni passo di quel pallido milite, senza riflettere, decise di aprire la porta del desiderio più nobile.

 E come una moderna e tenace Arianna sfidò quel suo
labirinto di calde incertezze; dimenticandosi l'importanza del suo stesso "filo".

La sua andatura era tarda e lenta, quanto speranzosa; ma nonostante ciò il suo cuore andava pulsando all'impazzata; come se dovesse esplodere all’improvviso.

Salì una scala a chiocciola.

E si ritrovò quindi nel suo mondo incantato, perché di fronte a lei … c’era lui, il bell’eroe dei pensieri suoi più torbidi!


Come poteva dunque  resistere a quel fascino travolgente? Di certo non avrebbe mai potuto dire di no  agli occhi cerulei di Alessio Pangalli; i quali la incalzavano come quel vento romantico, primo amore di Shelley.

E lui, intanto, come l'Alessandro Magno dei giorni nostri avanzava da bravo  alfiere – in divisa di gran gala- su quella scacchiera                             degli amori indecenti; dove ragione e sentimento si prendevano a cazzotti, senza esclusione di colpi .

Ma  quando fu d'innanzi alla sua Fedra, si sciolse come neve al sole, accarezzandola tutta con le sue forti, nel mentre i biondi capelli di lei si liberavano lieti da quella treccia infantile.

Le ore e i minuti trascorrevano tanto furtivi quanto benevoli, permettendo ai due giovani amanti –ancora alquanto acerbi- di proseguire nei loro giochi proibiti.

Lui con una mano le sbottonava la camicetta e con l'altra si occupava di quel tenero seno. Mentre indomita lei, per la prima volta, si sentiva finalmente donna.

E  quando i due ragazzi, paghi della loro estasi, si scoprirono
nudi, come Adamo ed Eva nel Paradiso celeste, si rifugiarono sotto morbide lenzuola di seta nera...

La notte si disperse assai velocemente in una melodia di Cherubini gioiosi.

 Il mattino seguente un pallido  sole danzava puntuale in quella
stanza del piacere, baciando in fronte l'ignara Camilla, che si risvegliava felice nel cuore, perché stranamente provava ancora quella gioia interiore … quando a quella  bambina gracilina veniva regalata quella bambola parlante da lei tanto desiderata.

Ma lui non c'era più! la paura e la forza dell’amore lo avevano rapito; nascondendolo in un mare di mille domande e di mille perplessità.

Passavano tiranni i giorni e del giovane non si seppe più nulla; solo ricordi di una canzone nostalgica.

E lei, la più cretina tra le romantiche e la più ostinata tra le devote,
come il buon Argo nei confronti del suo amato  Odisseo, consumava il suo fuoco in una notte buia; davanti a quella finestra che si gettava su quell’orizzonte di vane ed inutili illusioni, che le toglievano il fiato.

Aveva donato la parte migliore di sé a quel ragazzo, che aveva sempre creduto essere il riflesso più bello e genuino di quello specchio ideale; che invece le aveva, alla fine dei conti, sempre mostrato la deformità di un amore, nato troppo presto e del resto poco coltivato e anche poco coccolato.

Quanti ricordi ! il povero Ale non ce la faceva davvero proprio più; aveva trascorso un compleanno di cacca; ricevendo auguri e regali imbarazzanti da persone di plastica; che parlavano tanto, ubriacandolo di “nulla” … per accorgersi poi che a nessuno fregava veramente di lui e che tutto sommato quella notte allucinata, non era capitata per caso; anzi rappresentava l’occasione più ghiotta per affrancarsi in via definitiva da tutto e da tutti, perché finalmente gli avrebbe permesso di buttare giù da una torre ipotetica tutte quelle iene e tutti  quegli sciacalli, che nella sua esistenza … avevano cominciato a dilaniare pezzo per pezzo quel suo corpo già mutilato di pensieri e già glabro di passione. Era tutto surreale in quella notte pazzesca … Alessio senza accorgersene stava compiendo una sorta di meraviglioso viaggio nei meandri di se stesso; ed ora si immaginava in quel pomeriggio di fine luglio di parecchi anni prima. Quando un sole assai potente sembrava avere la repentina voglia di scaldare i cuori umani ed Heidelberg pareva appisolarsi muta ed impietrita d’innanzi a quel malinconico turista immerso nei suoi mille e mille dubbi.

Ma fu quel fortuito incontro di sguardi a cambiare le carte in tavola! Sabine – vent’anni di lì a poco-, nella più romantica giornata della sua gioventù malsana, trascinava quei suoi piedi così stanchi, mentre spingeva quella carrozzina, ultimo modello. Qui, seduto, vegetava Andreas, fisicamente offeso e presente nella sventura stessa; ma idealmente smarrito nel suo dolore più profondo.

Di certo non era più il ragazzino, che, sorridendo, andava incontro alla meravigliosa scoperta della sua essenza più vera. Erano lontani, troppo lontani, quei suoi giorni di gloria, quando spavaldamente cavalcava la sua bicicletta da corsa, sfidando quel vento amico nella speranza di una bandiera a scacchi da oltrepassare con gioia. E lei l’amata Sabine- come fedele Penelope- lo attendeva al varco per donargli il fatidico bacio della vittoria, pegno di quell’amore semplice ed incondizionato.

Ora su quel vecchio Ponte che, guardingo, cullava il fiume Necker; c’erano solamente due fantasmi, due inutili e silenziosi estranei.

Se chiudeva gli occhi, Sabine si rivedeva davanti al portone dell’Haus zum Ritter, in compagnia di Andreas: due teneri amanti che si cercavano con grande insistenza; le mani di lui sfioravano i capelli di lei e lei si sentiva al settimo cielo, mentre  le loro labbra si avvicinavano inevitabilmente, annullandosi dolcemente in una melodia di calda passione.

Ma nel momento in cui Sabine ritornava alla più dura realtà e il suo sguardo si sgretolava d'innanzi ai resti di quella larva umana; le lacrime non facevano altro che scenderle abbondanti, lambendole quelle gote d'alabastro:

"Dov’è finito il mio Andreas?... Non è possibile che quella inguardabile “accozzaglia”  di pelle e di ossa possa essere quello stesso ragazzo forte che, nei miei momenti più bui, mi stringeva tra le sue forti braccia e con parole di zucchero mi faceva dimenticare le  brutture della vita.”

Pensava tra sé e sé Camilla. E intanto cercava invano di vincere il prima possibile quell’improvviso ed inafferrabile momento di grande sconforto.
E adesso in tutto quel marasma … quel suo grande trasporto per Andreas stava decisamente vacillando e la cosa le faceva veramente paura, tanto da sentirsi sporca dentro!

Che stranezza solo due anni prima era proprio lei, che, seduta ad un tavolino, mentre sorseggiava una pils a Marktplatz, aveva giurato eterno amore al suo cavaliere senza macchia; accettando quell'anello di corallo

Come si poteva sentire libera di gettare al vento tutto quello che l'amore le aveva donato con grande bontà fino a quel momento?
Tutti quei pensieri la facevano sentire malvagia, brutta dentro; non poteva neppure negare di aver più volte desiderato la morte di Andreas.

Cavolo il giovane uomo aveva solo vent'anni e chiedeva solamente di poter vivere!

Lentamente il vortice di quei pensieri si stava allentando nella mente di Sabine. I due ragazzi erano quindi giunti al vecchio castello di Heidelberg, quel gioiello dalla gotica atmosfera, le cui mura possenti davano l'idea alla fragilità umana di una discreta protezione.

 Subito Camilla, senza una logicità di pensiero, corse verso la più piccola delle torri.

E affacciandosi si accorse che d'innanzi a lei il mondo le appariva sempre più piccolo; ma certamente più buono. Un mondo in cui lei doveva - senza riserve-  stare accanto al suo Andreas!

Dall'alto di quella torre, con occhio languido, Sabine contemplava il Philosophenweg, quell'immensa distesa di verde, impreziosita da una moltitudine di alberi secolari e di fiori i cui colori le evocavano forti sensazioni di una pace interiore quasi ritrovata.

Eppure quel flusso impazzito di ricordi le faceva  rammentare  quei loro teneri giochi amorosi anche lei e il suo Amore avevano varcato a piedi nudi quel Paradiso.

Sabine di colpo tornò alla realtà,si diresse verso Andreas: lui era là!

Gli occhi erano chiusi ed un sorriso dipingeva quelle silenziose labbra.

La ragazza si chinò sul ragazzo,con delicatezza gli prese la mano,era gelida!
Il cuore di Andreas si era di colpo addormentato. E Sabine era finalmente libera da quel giogo, che- d'incanto-  si era dissolto nel nulla.

E allora perché quel sottile velo di tristezza era così palpabile nell'aria?

Ma il destino era sempre in agguato e anche in quella occasione avrebbe di certo saputo mettere i bastoni tra le ruote ad Alessio e Sabine e di lì a poco sarebbe di certo accaduto come in una profezia ben scritta e rispettata!

Alessio aveva seguito di nascosto quell’epilogo amaro che silenziosamente andava chiudendo per sempre l’idillio perfetto di quei due innamorati.

 Da una parte era rimasto alquanto scosso da quel coup de théatre  e da quel finale tanto malinconico quanto beffardo; dall’altra parte invece era spinto dal vortice della passione verso quella ragazza sconosciuta, che, grazie al suo sguardo intrigantemente triste, lo aveva rapito, sedotto e soprattutto invogliato; neppure Barbarella la ribelle e Camilla l’aristocratica erano riuscite, con le lo loro armi di seduzione e di provocazione, ad incasinarlo  di testa e di cuore a tal punto da fargli perdere letteralmente la “brocca” e portarlo a diventare il perfetto “zerbino”.

Eppure Alessio aveva vissuto le sue storie precedenti con convinzione e voglia di mettersi in gioco; perché lui aveva dell’amore un rispetto ed una devozione quasi maniacale, come se volesse dimostrare al mondo di essere un uomo in carne ed ossa e non un automa dalle mille maschere.

Ma quella volta ad Heidelberg il giovane Pangalli aveva toccato con mani la follia e la leggerezza dell’amore più puro … quello con la A maiuscola e il desiderio di annullarsi – senza riserve- nel piccolo mondo interiore dell’altro, per riscoprirsi poi importanti e parte di un progetto.

E la stessa Sabine – con quel suo volto provato e  quell’aria sfatta ed allucinata – rappresentava per quel giovane straniero l’opportunità più concreta per essere veramente felice, opportunità non da respingere; ma da coglierla al volo! Non gli era mai capitato, infatti, fino a quel momento di essere attratto da una ragazza in quella maniera così prepotente e repentina.

Aveva sempre sentito parlare di brividi e di farfalle nella pancia; ma in vita sua non aveva mai provato questo tipo di emozione; forse perché fino ad allora il sesso non veniva coniugato all’amore; ma era solamente una specie di palestra dove battere il proprio record personale.

Insomma alla qualità prediligeva la quantità; la sua bacheca doveva sempre contenere un cimelio per ogni “sciocca ochetta” che la sua stessa ruffianeria aveva saputo abbindolare!

Ma con lei no! Dal momento in cui i loro occhi avevano avuto “come dono del cielo” l’incontro perfetto; Alessio aveva provato dentro di sè- per la prima volta da quando era al mondo- un’esplosione inaspettata … una battaglia infinita di sensazioni irripetibili, una scarica di piacere disumano.

Aveva una voglia pazza di lei; un desiderio furioso di appartenenza reciproca per scoprire insieme i segreti e le trappole dell’amore … il Pangalli insomma si sentiva un uomo nuovo; capace di coniugare finalmente il verbo “amare” in tutte le desinenze possibili ,che il cuore potesse auspicare.

E così ci fu l’idillio finale! In una bella ed estiva domenica di agosto; un cielo innamorato perso di quel sole fiero riscaldava quei prati intenti a cullare le loro fragili margherite …

Nell’aria sembrava quasi trionfasse una grande armonia di festa, dove non si udiva altro che una sequela di appassionate melodie … che la stessa natura aveva partorito nel suo ventre fecondo.

Mentre nel cielo terso andava trionfando l’immagine di quella nuvola a forma di bimba, goffa nella sua camminata infantile, che, con forza, stringeva la rassicurante mano di un giovane padre, di appena trent’anni.

E loro … Sabine ed Alessio fluttuavano nella leggerezza di una grossa bolla d’aria – nella consapevolezza di essere finalmente vivi: due corpi lanciati da una Mano Fortunata che si avventuravano in quel loro “Giardino dei Balocchi”.

Erano come bambini scalzi che rincorrevano nel vento il loro aquilone di carta pesta, mentre un mimo di altro tempo flertava con la curiosità dei passanti.

E quei due innamorati alfieri di un sentimento ormai in disuso si erano addormentati sotto quella quercia centenaria l'uno abbracciato all'altro.

Una madre ancora in erba stringeva al suo seno quella creatura che, ancora alquanto smarrita e confusa da tutto quel clamore, sorrideva alla vita.
Là solo e timoroso nascosto tra gli alberi se ne stava segretamente in disparte un piccolo laghetto artificiale, dimora principesca di un cigno ballerino.
Lui bello e lucente nella sua veste di eterna purezza era solito regalare ai visitatori stupiti meravigliosi spettacoli, stupendi nella loro semplicità.
Lui con eleganza e discrezione scivolava su quello specchio cristallino disegnando la parabola di un miracolo senza fine.

Quel nobile cigno era la stella di una rappresentazione senza prezzo,era il legame terreno con l'arte nella sua vera essenza.

E chiunque lo avesse incontrato con lo sguardo anche solo per un istante non avrebbe mai potuto evitare di sentirsi più libero dentro di sé.

Per Alessio ripensare alla bella Sabine non era evidentemente facile e piacevole; in quanto il finale di quella storia non l’aveva di certo ancora digerito.

 Di certo per lui quel 1993, fatto di luci e di ombre, non rappresentò che l’inizio di una lenta ed occasionale parabola discensionale. Un anno in cui nasceva la più grande “Truffa” della storia moderna e contemporanea, ovvero “L’unione Europea” … quel pseudo teatrino che avrebbe poi portato allo “schifo” targato terzo millennio.  I Balcani erano in subbuglio e “ l’allegra Banda Bassotti” giocava alla politica nei Palazzi Romani [sempre più spa e centri benessere che luoghi di proficuo lavoro], tirando fuori dal suo cilindro una nuova “austerity” – memori del successone avuto vent’anni prima.

E se il “divin Codino” vinceva il Pallone d’Oro; due grandi stelle lasciavano il loro firmamento : Audry Hepburn e Federico Fellini.

Ma il 1993 era anche l’anno in cui a San Remo un’acerba Laura Pausini implorava “la Sciarella” dell’epoca di ritrovargli il suo Marco … l’unico che aveva capito tutto era stato Ruggeri che sempre in quella Kermesse l’aveva zittita cantandole “Mistero”!

La cronaca nostrana martellava sul caso Elisa Claps e gli imbarazzanti silenzi degli ambienti ecclesiastici; mentre, dopo le stragi degli anni precedenti, la mafia faceva la pelle a Don Puglisi in quanto persona scomoda e destabilizzante.

L’unico spiraglio di luce di quell’anno  horribilis erano la burrosa zia Assunta e la tossica Yetta; star indiscusse del Team Francesca Cacace da Frosinone.

Ogni qual volta sentiva “ All that she wants” degli Ace Of Base e il che in quel periodo era quasi una prassi; non poteva fare altro che domandarsi che fine avesse fatto quella ragazza bionda che gli aveva regalato sicuramente la notte più bella della sua vita. Quella vita che era altro che un meraviglioso girotondo di incontri e di adii e lui non rappresentava che l’ignaro pittore che li dipingeva a tradimento sulle pareti di quel cuore che mendica invano amore …

Lui correva; eccome se correva … affannandosi come un matto alla ricerca di ogni piccolo tassello che la componesse, affinché lui stesso non smarrisse la sua vera identità.

ERA UN VIAGGIO, UN INDIMENTICABILE VIAGGIO VERSO L’OBLIO DELLE SUE PAURE, DELLE SUE FRAGIITA’ ALLA RICERCA DI QUEL NESSO LOOGICO CHE LO RICONDUCESSE ALLA SUA LUCIDA FOLLIA , QUEL MOMENTO CATARTICO CHE LO RENDESSE  FINALMENTE CAPACE DI FARE PACE CON SE STESSO.

E LEI DIAMANTE ERA STATA QUEL PORTO SICURO IN CUI SI ERA RIFUGIATO – IN SILENZIO – FUGGENDO DOLCEMENTE  DA QUELLA CLESSIDRA AMARA, PERCHE’ SOLAMENTE NELLA SUA ORBITA SI SENTIVA ACCOLTO, VOLUTO E INDUBBIAMENTE CAPITO..

 

 

 

CAPITOLO QUARTO

 

Alessio respirava a pieni polmoni quella strana notte; un’accozzaglia di pensieri ed emozioni non calcolate gli stavano letteralmente masturbando il cervello. Si sentiva braccato, come quella piccola bestiola insanguinata dai pallini di un perfido cacciatore alla ricerca della sua preda. Non riusciva a fare niente; ma dentro di sé bruciava forte quel desiderio contrastante di fuga dalla realtà contingente. Avrebbe voluto annullarsi per non respirare più quell’aria viziata di dubbi e di pesanti contraddizioni.

Era stanco di doversi, ogni istante della sua vita, confrontare con se stesso e con quelle mille e mille sfumature del suo carattere che in fin dei conti andava sempre scontrandosi con tutto e con tutti.

C’era solamente una persona che di fatto poteva sopportare, con classe e stile, tutte le sue paranoie e tutti i suoi malumori …. E quella persona era sicuramente Diamante!

La loro strana e meravigliosa avventura ebbe il suo formale inizio nel momento in cui Alessio vide per la prima volta, all’età di tredici anni, la piccola Diamante … un incontro apparentemente anonimo, sul quale un buon giocatore d’azzardo non avrebbe mai scommesso neppure un euro; perché privo di mordente, forse un cliché che profumava di stantio.

 Paffuto il piccolo Pangalli, paffuta lei, in quella palestra fatti sciente, due anime sole e diversamente simili si erano all’improvviso incontrate e senza alcuna ragione e logicità da lì a poco  sarebbe germogliato quello strano quid che sarebbe poi diventato  un patto solenne di mutuo soccorso o semplicemente materia folle  per un romanzo di formazione.

 All’inizio di questa storia ad Alessio non era che fosse particolarmente simpatica Diamante, o per meglio dire non l’aveva nemmeno mai considerata e calcolata, come del resto  aveva fatto anche lei.

Diamante era teneramente goffa ed insicura, ma nascondeva già dentro di  lei quel fascino galeotto di “ conquistatrice seriale”, che l’avrebbe- in seguito- distinta nella massa.

Sicuramente a tredici anni appariva come una anonima creatura che aspettava in silenzio di sbocciare alla vita e di spiccare finalmente il volo e mentre lo faceva … cercava di gestire al meglio la sua costante ricerca di sé.

Quell’anno di pseudo frequentazione, si  scambiarono – si e no- due o tre “ ciao”; parole forzate e pronunciate a denti stretti, insomma, dei saluti formato cortesia, per non apparire a quel piccolo mondo di Amélie, così simpaticamente provinciale, snob o cafoni.

Tutto ciò sicuramente era accaduto perché insicuro lui e forse  refrattaria lei, non erano riusciti a sedurre il tempo a loro favore; oppure perché una sorta di destino beffardo aveva deciso che quello non era ancora il  momento più opportuno e galantuomo per quelle due anime.

E così – come per magia- quella  creatura non pervenuta al Pangalli si rese evanescente nell’estate del 1986, anno che quel ragazzino ricordava ancora con piacere, nel bene e nel male.

Se  i più –in quell’anno- correvano in edicola alla conquista del primo numero di Dylan Dog;  Alessio invece si struggeva dentro perché dal suo piatto andava sparendo l’insalata e qualsiasi vegetale a foglia, causa giochi perversi con atomi impazziti !

 Ma la sciagura forse quella più grave, quella che gli rodeva maggiormente, era il fatto che non poteva più neppure  sbronzarti  allegramente con il nettare degli Dei;  perché il metanolo andava di gran moda, per la gioia dei Cugini d’Oltralpe che, sfregandosi le mani, ridevano a crepapelle. E lui l’illuminato Alessio aveva bisogno di quella “benzina” per sopravvivere dignitosamente all’idiozia “all’amatriciana”.

In politica era il momento del “ buon “ Bettino il parafulmine di tutta l’allegra combriccola …

Tutti avevano le mani sporche di marmellata; perché avevano vergognosamente attinto dallo stesso vaso; ma secondo il famigerato ”costume all’amatriciana “si sacrifichi il primo GEGIONE di turno e si salvi le chiappe agli intoccabili” … e l’uomo dal garofano rosso era all’unanimità lo spauracchio più appetibile.

E così in vero stile “spaghetti western”  venne umiliato e deriso, alla stessa stregua dell’ALBATROS di Beaudelaire, senza contare che i cosiddetti amici, nascosti nell’angolo, falsamente affranti, se la facevano con la refurtiva della rapina del secolo.

 Anche  il gossip più caciarone, quello delle “sciure milanesi” dal parrucchiere, in quel 1986 brillava di luce propria, celebrando e decantando Sarah “ la rossa”, consorte tutta pepe di Andrea di Windsor . La simpatica ribelle ne faceva di cotte e di crude per tenere allegra “la povera Bettina!” Sara la Bomba era stata quella stessa perla rara che negli anni novanta si era divertita come una pazza a giocare con il ditone dell’aristocratico piede Toscano,  parente di quella sagoma dell’ UGOLINO, che con i resti dei suoi avversari faceva baldoria.

Mentre a Salsomaggiore, spronata dalle note di “Si può dare di più”, trionfava una incredula Roberta Capua.

Anche se Alessio, fedele al motto …” devoto fino alla morte”, andava avanti nella sua convinzione che dopo Federica Moro ci fosse stato solamente il vuoto!

Quell’anno per il piccolo Pangalli, accompagnati dalla colonna sonora “  TOUCH ME “ di Samantha Fox, ci furono gli esami di terza media; mentre per Diamante si parlava semplicemente di  promozione  alla classe successiva, ovvero la seconda media.

Una volta terminati gli esami e venuto a conoscenza dell’esito degli stessi; il buon Alessio partì quasi subito, destinazione lago di Como, con la consapevolezza che a settembre avrebbe frequentato quella blasonata “Alcatraz”, scelta che poi si rivelò alquanto azzardata, poiché da quel momento ogni sua decisione si trasformò in una imbarazzante “Waterloo” di ripensamenti e di cambiamenti di rotta.

E della piccola Diamante, ragazzina paffuta ed occhialuta, ben presto se ne sarebbe dimenticato completamente, anche perché il loro primo incontro fu una “ flashata “ arida e priva di implicazioni emotive.

 A quel tempo e in quella precisa circostanza,  il Pangalli non ricordava; o per meglio dire non aveva mai saputo, quale fosse il suo nome di battesimo.

Passarono gli anni, due per essere più precisi e pignoli. E  tutto accadde in un modo quasi rocambolesco, come in una barzelletta scritta dal destino.

Per uno strano incastro di eventi, a quindici anni Alessio comprese bene, che, nonostante amasse il latino alla follia - soprattutto il caro vecchio Svetonio, grande biografo della Roma imperiale, così tanto ruffiano quanto colto ed elegante - la sua esperienza con quella prigione “maledetta” poteva dirsi brillantemente conclusa … causa vistosa incompatibilità dei soggetti coinvolti.

Il Pangalli infatti si era trovato a boccheggiare in un ambiente ipocrita; dove purtroppo la persona veniva valutata non per il suo valore, ma solamente in base al suo pedigree e soprattutto  alla sua dichiarazione dei redditi. Quando lui si iscrisse, avevano perfino avuto la brillante idea di aggiungere due nuove sezioni perché vi era stato un miracoloso aumento delle iscrizioni. Col risultato che si venne a creare una sorta di apartheid intellettuale; perché nelle sezioni storiche, quelle dove il paraculismo era di gran moda, si era pensato bene di inserire la crème de la crème e  in quelle nuove … la plebe, il volgo; insomma quei disgraziati, che non potevano vantare un cognome da leccarsi i baffi e che tanto meno non  potevano giocarsi la carta della BUSTARELLA selvaggia.

 E siccome tutto quel letame sapeva di stantio e gli faceva letteralmente schifo … dentro di lui   sentiva il bisogno di prendere le distanze da quel piccolo mondo antico, che di certo non poteva appartenergli più; o forse  non gli era mai veramente appartenuto !

Col senno di poi e una visione più limpida della realtà, ammise a se stesso di essersi iscritto a quella SETTA, non per convinzione, ma per bieco opportunismo.

Una pietosa commedia … semplicemente per tentare ancora una volta di piacere  a suo padre, visto che in quel tempo, e forse ancora oggi ,aveva sempre  quello  strano sentore di essere il figlio di serie b, quello fuori di testa per indole e idee; quello pigro e indeciso che quando la strada si faceva in salita, girava i tacchi e ne prendeva una più comoda.

Insomma tutta quella sciarada non era altro che un patetico tentativo di essere all’altezza del desiderio e delle aspettative altrui.

 Un bravo strizza cervelli, quello che per ogni suo respiro  rapina la parcella, “l’ avrebbe menata” con la storiellina del  famelico bisogno di amore, quel grido d’aiuto, che se non ascoltato si sarebbe trasformato   in una corsa contro il tempo verso il frigorifero.

E così fu! Era diventato infatti una sorta di mongolfiera deforme e a casa era “ palla di lardo” o “ bue grasso”.

Sinceramente la cosa non lo toccava più di tanto; perché avendo sempre avuto di suo uno scarso autocontrollo, rispondeva all’onta dell’offesa con sputi e sedie volanti.

Ma di una cosa doveva ringraziare sempre quella blasonata galera  e in particolare due secondini, due pseudo docenti, la cui laurea era stata ottenuta con i punti del supermercato. Il primo secondino, causa la sua proverbiale grettezza,era stato ribattezzato con l’onorevole appellativo di “Rogna”; mentre il secondo, causa il suo essere melenso  in un modo stucchevole e raccapricciante era conosciuto con il nomignolo di Micione; imbarazzante fumetto alla MAFALDA; così maledettamente tenera e molle da fare concorrenza a quel tonno che si poteva tagliare col coltello!

E oggi Alessio  diceva a loro cento volte grazie; un grazie di cuore, perché proprio qui in questa jungla di ipocrisia e slealtà, si era gentilmente messo in testa la corona d’alloro.

Infatti aveva composto la sua prima farneticazione, la meravigliosa e indimenticabile  “ODE ALLA MORTADELLA”, un testo senza precedenti, una commovente celebrazione dell’insaccato bolognese:

Mortadella mortadella

Sempre meglio della nutella

Lo sa bene tua sorella

Che la usa anche in padella

Mortadella che delizia

Una libidine per la Patrizia

Mortadella che goduria

E io rinnego anche l’anguria

Mortadella sul divano

E lei si fa quel gran sultano

Mortadella garantita

Lui si gode la partita

Mortadella col panino

E io mi sento assai divino

Mortadella a te mi inchino

Sorseggiando questo vino.”

Naturalmente, visto l’alto contenuto morale di questo spiazzante canto dei “salumieri”, ne seguì una ovvia spedizione punitiva ai danni dello studente Alessio Pangalli.

E quindi si andava con il tango! Innanzitutto, seguendo la prassi, tutta quella simpatica cialtroneria gli valse una visita guidata nella tana del “MISTICO”: il Boss di Alcatraz …

 Ma – poi chi se ne fregava!- Essendo per sua stessa natura abbastanza socievole era ben felice, quasi onorato,  di passare del tempo con Lui.

L’importante  per il Pangalli era stato schernire quei secondini e quelle loro nefaste manie. Del resto si capiva che la povera Miciona era una persona sola, senza la magia di una valvola di sfogo coniugata al maschile, annoiata dalla vita e acida come la strega dell’Est.

Qui nel cavò del MISTICO gli toccò suo malgrado di sorbirsi un tanto banale quanto scontato cazziatone all’amatriciana. Un cumulo di “BLA … BLA … e l’autorità parlava e parlava!

Con voli pindarici faceva quello che nella vita gli riusciva meglio; si accartocciava nel suo angolo del pentimento ad attendere il cenno propizio per tornare da Canossa, perdonato e riammesso a corte!

Quando poi – dopo particolari traversie e simpatici fuori programma – il nostro impavido Alessio finalmente ottenne il meritato passaporto per la sua “ liberazione intellettuale.”

E così prima di partire per le sue tanto agognate vacanze; dovette a malincuore compiere una sorta di pellegrinaggio informativo, visitando quasi tutti  i Paradisi del circondario che potevano soddisfare la sua idea di educazione scolastica.

La sua simpatica crociata fu alquanto snella e certamente ben mirata. Poi alla fine – ironia della sorte- optò di approdare nella sua piccola e sconclusionata città, che, bontà sua, gli aveva regalato i natali.

E qui, in questo luogo ameno, sorgeva l’imponente palazzo dai fasti antichi, vestito di mosaici e di vetrate di mille colori. Un liceo situato nella via più centrale di quella piccola comunità.

Sorpresa del destino: “ ricomparve lei, Diamante!”

Lui  non la riconobbe subito o per meglio dire non riuscì a ricollegarla immediatamente a quella ragazzina, gentil fantasma dei suoi tredici anni.

Era cambiata, meravigliosamente cambiata e di quella ragazzina paffuta non c’era più nulla, erano restati solo gli occhiali, ma alla moda, sottili e dorati in una forma vagamente tondeggiante; di certo non erano più quegli osceni plasticotti anni ottanta, che le davano quell’aria radical -chic di una Mafalda qualunque, che della biblioteca ne faceva una ragione di vita.

Aveva rotto quel bozzo che la imprigionava e aveva indossato le ali sue più belle, perché aveva oramai ben compreso che il suo sguardo e il suo sorriso disarmante sarebbero state le sue armi migliori per prendere finalmente il volo.

Fu lei  ad attaccare bottone e a farmi presente come c’eravamo già incrociati anni addietro alla scuola media.

Lui non la ricordava affatto, ma per non fare la figura da “ cioccolataio”  glissò con stile, facendosi vedere infervorato d’innanzi a quella lieta novella!

Anche se lei  mangiò la foglia immediatamente e comprese il suo goffo tentativo di una cortesia di circostanza … per tentare di chiudere quanto prima l’imbarazzante situazione.

Era pur vero che Diamante e il giovane Pangalli – all’inizio-  non è che si prendessero granché; niente tarallucci e vino insomma; anzi  ad essere sincero  si stavamo pure  un pochino antipatici .

Questo forse era dovuto al fatto che erano due animali da palcoscenico, diciamo pure un tantinello narcisisti, e la smania di applausi non poteva che dividerli!

A dirla tutta non erano che due potenziali fenomeni da baraccone – simpatici e alla mano per modo di dire- con l’assurda pretesa di piacere ad ogni costo, mendicando l’approvazione generale. E col cavolo che amavamo dividere onori e gloria: volevano brillare di luce propria ad ogni costo!

E  poi, come in una partita a scacchi che si rispetti, dove  c’è sempre un colpo da maestro all’orizzonte; le loro solitudini si annusavano, si cercavano e alla fine si erano trovate; facendoli risvegliare all’improvviso in un mondo parallelo, in cui quei due ragazzini si sentivano leggeri e finalmente liberi di vivere e soprattutto di sbagliare.

E venne il giorno in cui  Diamante entrò a far parte veramente  della vita di Alessio. E tutto ciò avvenne grazie  ad un intrigo ed incastro di eventi,  casuali e ad un’ alchimia voluta dal destino, che, ironia della sorte, andava anche a coinvolgere in modo indiretto  la sorella del Pangalli.

Finalmente Diamante usciva dalle sue segrete e si mostrava, come Venere dalle acque,  in tutto il suo splendore.

Della ragazza la prima cosa che colpiva era senz’altro il suo meraviglioso sorriso caldo ed accogliente, che sapeva aprirti il cuore anche nei momenti più bui, era così disarmante e genuino che tu alla fine ti sentivi piccolo … piccolo come quel cucciolo d’uomo che bramava il seno materno.

Ogni qual volta lei lo accennava solamente per diletto o civetteria anche i suoi occhi meravigliosamente castani non potevano fare altro che seguire questo speciale atto d’amore.

Diamante -  a sua insaputa-  era divenuta per Alessio  la sua adoorabile Cassandra, dispensatrice di possibilità e di certezze; la sua fatina buona; a volte ascoltata, a volte ignorata o contestata. Ma lei restava sempre punto fermo del suo girotondo esistenziale; perché purtroppo aveva un dono ed una maledizione: era tra le poche persone che sapeva veramente leggergli dentro, non avrebbe mai potuto guardarla negli occhi e mentirle spudoratamente; perché sicuramente lo avrebbe “sgamato” e alla fine sarebbe dovuto salire – mestamente e con la coda di paglia- sul carro dei peccatori in direzione di Canossa.

Se da una parte il fatto che lei sapesse interpretare la sua anima e il suo cuore lo lusingava non poco; dall’altra quella stessa condizione lo faceva veramente” incazzare”, perché a volte si sentiva bloccato, sempre sull’orlo di un precipizio : “lo faccio, non lo faccio?” eppure quella meravigliosa incertezza in fondo in fondo gli  piaceva un casino, perché non rappresentava che una sorta di incantesimo, capace di rendere ogni suo respiro unico e speciale.

Ancora oggi se chiudeva gli occhi e ripensava a lei ad Alessio veniva una grande nostalgia mista ad una profonda malinconia.

 E nell’aria gli pareva propagarsi quel  inconfondibile profumo di muschio bianco che baciava la candida pelle di Diamante; oppure gli sembrava di sentire quella timida voce dell’acerba ragazzina intonare “ la mia storia tra le dita “ di  Gianluca Grignani.

Anche se nel loro cammino di cuori affini … “strani amori” della Pausini e “ Margherita” di Cocciante erano i motivi più gettonati.

Se il Pangalli avesse dovuto dire le prime tre cose che gli venivano in mente pensando a Diamante direi senz’altro: lo  sguardo, le mani e la pelle profumata al latte alle mandorle.

Alessio rammentava, come se fosse ieri, quelle sue camicette scelte con estremo gusto, che le lasciavano dolcemente scoperto quel suo décolté, mai volgare o fuori luogo.

La sua Diamante sapeva vestirsi, eccome sapeva vestirsi! In tutto il tempo che si erano frequentati non ci fu mai alcun episodio dove lei risultasse sciatta o fuori posto. Nemmeno quando indossava quello scafandro nero durante le lezioni di educazione fisica perdeva il suo perché e la sua femminilità.

La ragazzina era fantastica ed unica, perché come il suo “compagno di merende” aveva quella strana voglia di prendere la vita con quel velo di lucida follia, che sapeva renderla imprevedibile; la banalità era bandita!

Lei era come la più bella poesia che un giovane amante potesse scrivere, perché bastava solo guardarla per trovare un mondo di rime.

Alessio era rapito, drogato, beatamente succube di lei; non come uno zerbino; ma semplicemente come un  “ passionale seguace” dell’inviolabile principio delle “affinità elettiva”.  E Goethe docet!

Diamante, nonostante lo fosse, non si reputava per niente bella, ma  dentro di sé, da  genuina “scorpione”, sapeva benissimo di possedere quella  certa sensualità, capace di stuzzicare ogni tipo di prurito giovanile del “sesso forte”.

Come ogni donna che si rispettava lei ne era davvero conscia e da brava e moderna Circe ben comprendeva di avere dentro di sé quel potenziale adatto a sedurre, in modo garbato, ogni spasimante, che decidesse di giocare con lei, naturalmente alle sue regole.

Intelligentemente maliziosa ed argutamente donna, Diamante tesseva la sua tela con non chalance; tanto è vero che la mitica Penelope al suo cospetto non era che una povera sartina di bottega.

Ale la considerava e la considera tutt’ora – anche se sono quasi trent’anni che non si vedevano e non si sentivano- la sua Musa Ispiratrice: quella presenza, quasi mistica, in grado, con la sua luce interiore, di accompagnarlo, passo dopo passo, nei meandri delle sue paure, nell’oscurità della sua follia.

Diamante non era di certo una persona risolta e tanto meno una figura dall’equilibrio conquistato e finito; nel senso che non possedeva ancora una chiave di gestione consapevole delle sue emozioni e dei suoi sentimenti 

Del resto il fatto che si accompagnasse ad un tipo come il Pangalli e alle sue paturnie diceva tutto. Ma insieme si erano divertiti un casino, come matti! Avevano riso tanto alla faccia del decoro, dell’autorità e di ogni sua oppressione.

Lei era come il vento, grande amore di Shelley: dispettosa e fuggevole, una creatura piacevolmente capricciosa, alla quale perdonavi quasi tutto, perché sapeva anche essere ironica e leggera!

Insomma lei nella mente di Alessio appariva come quell’aquilone di carta pesta, che si teneva stretto- stretto nella mano destra, aggrappandosi a lui con tutta la propria forza, per paura di perderlo.

 Ma alla fine, però, ci si scopriva così sfigati, perché senza un vero motivo, quel fragile aquilone di carta pesta ci scappava dalle mani e noi tutti restavamo lì come dei perfetti cretini, attoniti e tristi.

 Diamante, in quegli anni in cui la sua femminilità stava sbocciando; era una giovane donna  emotiva e volubile, una persona piacevolmente complicata.

Lei purtroppo, come voleva la prassi al femminile, era la peggiore nemica di se stessa, in quanto non accettava fino in fondo la sua fisicità. Si vedeva, infatti, inadatta e inopportuna d’innanzi  ai fantascientifici diktat della moda del tempo, che celebravano le anoressiche, le complessate … le infelici.

Si stimava così poco che quello specchio diventava per lei il suo maledetto tallone d’Achille. Lei odiava, chissà per quale strana alchimia di pensiero, quel suo corpo dalle forme  generose; che –bando ad ogni ipocrisia gratuita- al pubblico maschile piaceva tant, perché sapeva sedurre in modo assai sfacciato.

 La sua bellezza, non passava di certo inosservata; era inconfondibile tra la massa: la vedevi perché ti correva incontro sbarazzina, ricordandoti gli anni cinquanta e le grandi dive americane.

Il vero problema di Diamante non era solamente di taglia, di forme o di paranoie al femminile; bensì c’era pure quella infinita battaglia casalinga, che silenziosamente combatteva con ambigua costanza contro quella madre che – in fondo-  aveva la sola colpa di essere avvenente. Una madre giovanile, simpatica, una donna elegante e sempre sul pezzo: persona schietta e piacevole conversatrice; una figura arguta, intelligente e mai banale.

Purtroppo lei percepiva nella figura di sua madre  una sorta di variabile impazzita, che andava ad intaccare in modo subdolo la sua equazione esistenziale. Non riusciva a capire che quella inutile disputa non poteva che portare al nulla, perché sterile e priva di senso: lei, come donna, ma soprattutto come figlia, avrebbe dovuto semplicemente sentirsi obbligata a costruire un fronte solido e comune!

Diamante era puro tormento, un’anima bella ma irrequieta; che fondamentalmente aveva come Alessio una grande fame d’amore e di approvazione. Bisognava piacere, piacere ad ogni costo, perché si doveva entrare a pieno titolo nella massa e non importava se il novanta per cento di quella mandria era composta da deficienti; si doveva indossare una maschera e sputare sulla propria dignità per sperare di essere accettato.

Morale della favola … col senno di poi, vuoi l’età e la disillusione, ciascuno poteva ben comprendere di quanto era stato “pirla” a dannarsi l’anima per piacere ad ogni costo!

Diamante, come il Pangalli, aveva semplicemente bisogno di essere compresa ed accolta. Era come se il suo stesso essere, a volte così irriverente verso l’altro sesso, chiedesse costantemente aiuto, lanciando un grido a quel suo piccolo mondo antico, così bastardo e vanesio.

Era come se volesse affermare la propria fisicità: insomma Ale, senza accorgersene, stava assistendo alla sua meravigliosa autodeterminazione.

Quale tenerezza suscitava in quel giovane cavaliere senza macchia la sua Diamante, ogni qual volta tentava invano di annullarsi, per entrare nelle grazie di una “carogna”  qualunque, che le prometteva due grammi di felicità. Non si rendeva conto di mettersi totalmente a nudo, di abbattere piano piano quel muro invisibile che difendeva le sue fragilità.

Non si rendeva affatto conto che alla fine tutto quel girotondo, quello sgangherato valzer  appassionato di volti, di storie, condite di balle e di mezze verità, non era altro che una specie di “cazzotto” emozionale, che alla fine non avrebbe fatto altro che farle sanguinare il cuore!

Alessio aveva vissuto in prima persona tutti gli innamoramenti di lei: da quelli più romantici a quelli più fuori di testa. Sicuramente restava sempre alquanto basito da tutte le volte in cui aveva dovuto conoscere il principe consorte e avvallarne la nobiltà d’animo. Neppure il buon “Michele” della pubblicità del brandy; oppure il signor “Del Monte”, dal Panama bianco, avevano così tanta responsabilità.

Di tutte le sue storie sentimentali, sfiorate o affondate negli anni del loro sodalizio ; forse ce ne era stata una sola, che avrebbe potuto regalarle finalmente quella protezione e quel senso di appartenenza, che in fin dei conti lei andava cercando disperatamente.

Gualtiero Rebecchi era un ragazzo un po’ più grande di Diamante e perfino di Alessio, di bell’aspetto e di buona famiglia, anche se la sua cultura basica faceva davvero a pugni con la preparazione della ragazzina.

Partendo dal presupposto che la diversità arricchisce e non divide; allora   si poteva tranquillamente sopportare il fatto che il nostro baldo Gualtiero non riusciva a pronunciare in modo “cristiano” la parola semaforo; oppure si poteva anche passare sopra se aveva la sfacciataggine di  credere che la “Piccarda Donati” fosse una collega di Rocco Siffredi.

Lui aveva quel quid per domare, con amore e soprattutto con grande pazienza, la parte più pazza ed estrosa di quella giovane donna. Gualtiero insomma era un tipo a posto, non un serial killer e neppure un matto uscito da una struttura.

Era, insomma, il classico “Gegione” della porta accanto, buono come il pane e servile fino alla nausea, ricordava il “Jeffrey di turno”, maggiordomo tutto fare. Era quell’essere meraviglioso, che, appena si suonava la campanella regale, correva, come un cricetino innamorato sulla sua ruota di plastica gialla. Faceva di tutto per esaudire ogni sua richiesta. Altro che la “ Genietta spavalda “ vestita da odalisca, nella sua casa- bottiglia. Una dilettante al suo cospetto! D’altronde, in quella situation-comedy anni 60, questa “Genietta” aveva come sola priorità quella di servire il suo “padrone” il fascinoso maggiore Anthony Nelson,

Il Rebecchi l’amava da impazzire, quasi alla moda dell’Ariosto o del Boiardo; anche se   in certe occasioni poteva apparire perfino un tantino succube di lei, insomma il classico zerbino comprato per dieci euro al mercato rionale.

La ricopriva di regali e di attenzioni, cadendo a volte nella trappola di una dipendenza quasi esclusiva.

Diamante aveva finalmente trovato quella persona rara, che viveva per lei, assecondando ogni suo desiderio e volendole veramente bene. E cosa forse più importante era uno dei pochi che era sempre andato d’accordo con Alessio, forse da buon “paravento” aveva ben compreso che, per “quagliare” con la sua bella, avrebbe dovuto – causa forza maggiore- prendersi il pacchetto completo.

A questo punto i giochi sembravano fatti; nell’aria c’era profumo di fiori d’arancio: mezza casa era già stata arredata! Ma come in una telenovela anni 80, “ anche i ricchi piangono o la schiava Isaura”, il colpo di scena era servito, altro che pranzo!

E la nostra indomabile Diamante ne era l’artefice ! a sua discolpa il fatto che quel suo idillio era stato boicottato da un complotto giocato sul filo del rasoio. Lo spettro più che mai tangibile di una suocera assai fastidiosa ed ingombrante era tremendamente attivo sulla scacchiera di quel giovane amore, tanto è vero che gli stessi equilibri della coppia andarono allegramente a “ramengo”.

Ma chi poteva mai sopportare quell’insaziabile megera così falsa e stucchevole?

Una vera “cialtrona” ad honorem, una donna che possedeva la grazia di Attila: dietro di lei la distruzione totale!

Il suo passaggio lasciava sul campo cumuli di macerie e una moltitudine di contusi o di feriti, senza contare le numerose carcasse dei suoi innumerevoli detrattori … lungo quel viale del tramonto.

Dopo questa débacle amorosa Diamante predicò il vecchio adagio chiodo schiaccia chiodo; fino a quando sulla sua strada non era apparso lui,” una fatal delusione”.

Di tutte le maschere che avevano partecipato ai suoi innumerevoli balli … quella di quest’uomo era stata sicuramente la più difficile da digerire; perché l’ aveva veramente segnata dentro: i sogni erano diventati illusione e l’illusione … disillusione!

Una persona forse troppo calcolatrice, che senz’altro non poteva  avere veramente nulla a che fare con l’essenza più intima di una ragazza così speciale.

Morale della favola Diamante di lì a poco si sposò con la convinzione di un lieto fine, ma invano, unica consolazione  il regalo più bello che una giovane donna potesse desiderare il suo unico figlio.

E’ cosa superflua rimarcare che quella unione andò a rotoli in pochi anni … le premesse da sole avevano già detto tutto!

Ovviamente, dopo la partecipazione di Alessio alle nozze di Diamante, si interruppe anche il loro idillio.

 Per quasi trent’anni non si incontrarono più e tantomeno si parlarono. E la cosa più strana era che non avevano neppure litigato, ma a causa della loro troppa confidenza, avevano trovato giusto troncare, con naturalezza, senza rancori e senza voltarci indietro; per evitare il solito chiacchiericcio di quella gente, che non sapeva farsi i pentoloni di fatti propri!

 Ma il loro rapporto mentale e di cuore non si era mai interrotto, perché se era vero che la fisicità avesse una fine; altrettanto corretto era affermare che la spiritualità fosse eterna.  E così era stato: nel momento del dolore lei c’era!

 

 

CAPITOLO QUINTO

Ma cosa rappresentò veramente per Alessio la vicinanza di Diamante ? Una sorta di canto della Sirena, dal quale non bisognava affatto fuggire per paura di rimanervi impantanato; bensì occorreva predisporre il cuore ad un ascolto genuino e sincero, perché dentro di te sapevi benissimo che era la tua favola che stava per iniziare; una piacevole pazzia che ti aveva toccato l’anima e alla quale tu stesso non potevi esimerti.

Era quell’insolita occasione di una fuga assai benevola dallo spleen quotidiano; la sua concreta possibilità di scappare da se stesso e di ritrovarsi.

Gli  serviva allontanarsi da quel MOSTRO, che lo stava dolcemente divorando fino all’osso e che non faceva altro che opprimerlo e incattivirlo.

Sicuramente fino ad allora non aveva  mai pensato che potesse esistere in natura il rapporto perfetto, ovvero quell’alchimia subliminale, così intima e totale, con una persona del sesso opposto, il cui sorriso accattivante aveva potere di  donare spensieratezza, leggerezza e soprattutto complicità.

Diamante a volte poteva risultare simpaticamente paravento - quanto lui-nei suoi deliri di onnipotenza … e il che la faceva apprezzare ancora di più al giovane Pangalli; perché si plasmavamo a vicenda.

Lei era una delle poche persone che sapeva veramente leggergli dentro l’anima e dentro il cuore. Le bastava guardarlo un attimo per comprendere se in quel determinato istante della giornata lui fosse vittima o carnefice.

Con lei lui non poteva giocare sporco, in quanto fiutava la menzogna lontana un miglio. Se solo tentava di costruire una sua balla colossale, lei lo fulminava con lo sguardo e gli toglieva il gusto di compiere ogni sua imprevedibile follia.

Diamante, grazie al suo essere risoluto e apparentemente accondiscendente, aveva saputo addomesticare quel lato crudele e spregiudicato, che un ragazzo di vent’anni, arrogante e voglioso dei suoi cinque minuti di notorietà, coltivava con ardore; perché voleva gridare al mondo intero la sua onnipotenza.

Con lei Alessio si sentiva finalmente libero, scazzato e piacevolmente fuori di testa.

Aveva per la prima volta deposto l’ascia di guerra contro se stesso. In lui era perfino sparito – come per magia- quel velo di apatia che lo aveva accompagnato fino a quel momento.

E poi, cosa più importante, aveva surgelato per un po’ di tempo quelle domande e quelle questioni spinose che avevano importunato la sua stessa adolescenza.

Stare con  Diamante aveva per lui il sapore di una dolce rivincita.

Lei era come una sana droga che faceva bene al suo essere;  perché lei lo trasportava nel paese dei balocchi – era sempre su quella giostra rossa.

Lo trascinava in un mondo parallelo, dove lui era il solo ed unico protagonista di un inaspettato romanzo d’appendice.

Tra loro dunque c’era una grande affinità elettiva, degna di Goethe, che andava oltre tutto e oltre tutti.

Non semplicemente fratellanza, amicizia o amore. Era una sorta di meraviglioso rimbambimento cosmico … di alleanza solenne, silenziosa e strategica tra due anime tremendamente affini e maledettamente sole.

Non vi era un vero senso a tutto ciò  o un fine ben determinato a questo assurdo e piacevole gioco al massacro.

Tutto ciò che vivevano insieme era frutto di una dolce pazzia; un disegno al di fuori e al di sopra di loro due.

Forse questa corrispondenza di sensi dipendeva dal fatto che alla fine della fiera loro non erano altro che due stupidissimi sassi gettati nel nulla della vita dalla stessa fottutissima mano!

Alessio ricordava ancora molto bene le loro seghe all’università e quelle fughe strategiche in città alta … o a San Vigilio.

A lui mancano da morire i loro aperitivi sul Sentierone, quando cazzeggiando discorrevano di tutto e di niente.

Ma ciò che mai poteva scordare era il suo profumo, la sua pelle morbida e quei grossi occhi castani che cercandolo gli chiedevano silenziosamente asilo.

E tante volte rimpiangeva quel periodo e quel pullman, il cui marciare lo faceva addormentare appoggiato a lei … sentendosi  finalmente accolto, avvolto e protetto.

Di Diamante, Alessio possedeva ancora quella “Smemoranda” fine anni novanta, che lei con cura aveva coperto con una fotografia di una indimenticabile Claudia Schiffer. Qui la ragazza sognava e si raccontava, tra fotografie, dediche e pensieri figli di quel tempo.

In una notte come quella lui stava tentando disperatamente di non soccombere alla paura di riconoscersi come uomo … lui aveva quel folle desiderio di prendere tutti i pezzi del suo vissuto e di ricomporre il suo puzzle esistenziale. Lui aveva il diritto di conoscere finalmente chi era, da dove veniva e soprattutto il senso di sé!

Quel giovane uomo era sempre stato fedele “vassallo” di ogni forma di espressione artistica: dalla musica alla pittura; dalla cucina alla scrittura.

Nell’arte del cucinare lui aveva sempre visto una specie di melodia tantrica, capace di incantare,sedurre e conquistare. Era come se giocasse un’infinita battaglia di sensi, di gusti e di passioni.

Lui in cucina era avvolto dall’ovatta di una silenziosa e proficua orgia creativa; in cui faceva l’amore con gli ingredienti, che mischiava in mille e mille perversioni … con la consapevolezza di ingannare la lucidità intellettuale di un gentil sesso assai attratto!

Tra le innumerevoli ricette di sua invenzione; il Pangalli andava particolarmente fiero per la sua “Didone Salat”, un piatto estivo e colorato:”

·         “500 gr. di pipe

·         Un vasetto di salsa tonnata

·         Una scatola di piselli

·         Una scatola di mais

·         2-3 cucchiaini di capperi sotto aceto

·         Mezza cipolla tagliata fine

·         Sale,pepe q.b.

·         All’occorrenza un goccio di olio d’oliva extra vergine

Dopo aver scolato la pasta e dopo averla raffreddata sotto l’acqua corrente, prendere tutti gli ingredienti e scaraventarli senza pietà in una zuppiera assai capiente: condire, mescolare e  poi godere.”

Mentre, per quanto concerneva la scrittura, Alessio vedeva una naturale valvola di sfogo a tutto quel suo disagio emotivo che piano piano esplodeva dentro di lui. Era come se nella sua anima si prendessero a “cazzotti” demoni di diversa fattura; piccoli “bastardelli” ruffiani che cercavano un posto al sole.

E lui – “povero Cristo del Terzo millennio”- piegato sulla sua gobba per portare la sua croce; scappava, come un coniglio, dalle atrocità di quella contingenza, sperando di raggiungere al più presto il suo “Bengodi”; finalmente libero di essere se stesso nel bene e nel male!!

Lui era certamente assai affezionato alla figura del “Conte Alexander Von Blumenstadt”; gentil retaggio della sua penna ispirata. In questo personaggio di carta pesta, infatti, il Pangalli  vedeva la deflagrazione totale dell’illusione umana: la supponenza di voler apparire invincibili ad ogni costo, per poi alla fine riscoprirsi un “bluff” senza precedenti!

Alexander aveva compreso a sue spese che la vita non era niente di così intrigante; era semplicemente una grande truffa ordita dal destino. E lui non era altro che uno stupido burattino i cui fili venivano mossi dal venticello  della “sfiga”. E allora che fare? Indossare la maschera che più ti si addiceva e “fottere” te stesso, fingere di essere felice anche se fuori piove, intanto con cinque euro ti compravi sempre un buon ombrello al mercato!

E così Alessio, in quella notte senza fine, aveva riesumato anche quella sagoma di inchiostro, che, alla fine dei giochi, aveva insegnato a lui a concepire la vita come un’infinita ricostruzione di un puzzle a più facce, dove bisognava augurarsi di trovare tutti i tasselli; altrimenti si avrebbe perso il senso di sé e della realtà!

“Quella casa sulla collina, ricordo di giorni felici, era oramai una dimora spenta, un luogo di un passato ameno, malinconicamente lasciato addormentare nelle piaghe di un dolore lacerante.
Vedevo ancora negli occhi di un bambino curioso quella coupé rossa che le andava incontro con sospetto.

 Le andava incontro a passo tardo e silenzioso! Alla guida c'era lui ; il conte Alexander Von Blumenstadt, ultimo rampollo di una famiglia aristocratica della nobile Prussia, caduta in disgrazia dopo il secondo conflitto mondiale.

Chiunque l'avesse conosciuto; di Alex -- come lo chiamavano affettuosamente in famiglia -- non avrebbe potuto che dire: "un gradevole giovane dallo sguardo perso nel vuoto.

Eh sì! Il giovane nella sua armoniosa estetica poteva rammentare ad un occhio alquanto scaltro la perfezione di una scultura di Donatello oppure la patinata eleganza di un personaggio di un quadro di Monet.

Ma quanti incrociavano i suoi occhi verde smeraldo ne rimanevano tremendamente soggiogati: dolore e rabbia si celavano in quell'animo ancora acerbo.

La coupé rossa a fatica aveva raggiunto il suo traguardo ed Alexander era sceso.

 Per vincere quella strana sensazione di impotenza si accese una bionda...
Del resto il giovane e la sua famiglia avevano lasciato quella casa alla fine degli anni settanta, quando il padre Humbert Joseph, famoso direttore d'orchestra, aveva spostato il suo interesse artistico nella capitale francese.

Se da un lato Alex provava una sorta di fastidio cosmico, quasi come se sentisse la sua stessa fragilità danzare sull'onda dei ricordi, dall'altro lato coltivava in sé un forte desiderio di varcare il cancello di quel giardino.

Lui doveva sapere;  lui in un certo senso aveva l'obbligo morale di riabilitare agli occhi dell'opinione pubblica il nome dei Von Blumenstadt.


Il ragazzo prese dalla tasca un mazzo di chiavi e senza esitazioni aprì quel cancello, che cigolava verità mai dette. E mentre percorreva l'austero viale, vegliato da quell’esercito muto di cipressi; un'improvvisa e sottile folata di flash back iniziò a sedurre la sua mente confusa.

Nel 1975 aveva quattro anni e suo fratello Gedeon un anno in meno.

La mamma Juliane, discreta pittrice, era là, in compagnia di Georg, l'anziano giardiniere, e insieme stavano potando quel roseto che era stato posto in segno di profonda devozione alla statua della Santa Vergine. E loro i due fratellini correvano spensierati tra le braccia del vento.

 Il flusso di quei ricordi correva in modo così incalzante che lo stesso Alexander non si era accorto di essere giunto ormai all'interno della casa.  Si sentiva come una sfortunata pedina su di una sgangherata scacchiera.

Nel corridoio delle grandi occasioni quel lampadario a pendenti di cristallo boemo, sebbene sbiadito dal tempo, gli ricordava una dolce evasione: come era bella Juliane in quel vestito di seta nera, mentre danzava scalza lungo tutto quel perimetro, approfittando di quel valzer viennese, scandito con passione da quelle mani paterne che accarezzavano i tasti di un pianoforte a coda! E loro … i piccoli Von Blumenstadt guardavano con gli occhi dell'amore!

Là sulla parete destra di quell’immensa sala si mostrava fiero  quel ritratto del Conte August Maximiliam e della consorte, la contessa Margarete Gertrud Risendorf, i nonni di Alex e di Gedeon, purtroppo mai conosciuti... ma della loro triste storia si sapevano tutto.

In una sera d'autunno del 1916 la contessa Margarete era fuori in giardino e davanti alla statua della Vergine implorava la fine della guerra.

All'improvviso il cancello si aprì e due sottotenenti, gentile omaggio dello Zio Sam, violarono, senza ritegno, l'animo  della donna e non solo.

Tutto durò cinque squallidi minuti di pura follia umana; Margarete era stesa mezza nuda su quel sasso duro e anonimo. Spalancò gli occhi e li portò verso la statua di Maria facendosi il segno della croce.

 Rientrò in casa e conservò nel suo cuore il suo immenso dolore di donna ferita.

E che dire del conte Maximiliam, l'austero militare, orgoglioso della sua divisa, aveva compreso che l'aquila regale aveva ormai smesso di volare e che mestamente si sarebbe assopita nelle piaghe sanguinanti di una storia senza senso.

 Così, non conoscendo l'inquietante segreto della moglie e amandola sopra ogni cosa, riuscì ad ottenere, per vie traverse, i documenti necessari, affinché i suoi cari potessero rifarsi una vita nella vicina Svizzera.


E in questo luogo la contessa Margarete non solo dovette crescere da sola il piccolo Humbert ma anche svezzare quel figlio di un peccato mai commesso!

E il conte, suo marito, in Germania,  uscì di scena da eroe d'altri tempi: indossò la divisa di gran gala, quella dal guanto bianco; si sistemò i baffi alla moda del Kaiser; si girò verso il quadro del Fuhrer per l'ultimo saluto e dopo questo gesto si sparò in bocca.

Il giovane Alexander salì quindi la scala a chiocciola, la quale collegava il piano di rappresentanza con la parte più intima della casa.

Alex entrò nella sua stanza da bambino, quel luogo di fate e di maghi, nel quale interagiva con giochi spensierati con il piccolo Gedeon.

Era tutto rimasto come allora, la stessa disposizione dei mobili, la stessa atmosfera di burattini e balocchi.

 Ed ecco Theodor il piccolo orsetto di peluche di Gedeon, gettato là in un angolo vestito d'oblio e ricoperto da una vistosa coltre di polvere.

 Quell'ultimo pomeriggio dell'anno 1976 Gedeon e Alexander erano saliti, incuranti di un pericolo alquanto reale, sopra la grande magnolia che cingeva in segno di protezione metà dell'edificio abitativo; quando il primo mettendo il piede in fallo precipitò nel vuoto; invano il secondo poté cambiare quel folle disegno.

E così all'inizio del 1977 la famiglia Von Blumenstadt lasciò la campagna berlinese per rifugiarsi nel caos parigino.

E cosa restò di quella tragedia? Una madre priva d'affetto per il figlio rimasto, una donna che consumava il suo senso di colpa nella solitudine di una bottiglia. Un bambino introverso e sballottato da un collegio all'altro. Un padre che cercava risposte tra le lenzuola di una puttana qualunque.”

Se chiudeva gli occhi Alessio Pangalli  vedeva ancora quella coupé rossa schiantarsi a folle velocità contro il cancello di quella maledetta casa sulla collina.

Rivedeva nei suoi sogni il volto tumefatto del povero Alexander; non era più arrabbiato, sorrideva sereno... finalmente era felice.

Alessio era talmente preso dal suo essere artista a tutto tondo che a volte – chiudendo gli occhi- immaginava di essere dentro i romanzi o alle opere a lui più care per contenuto, insegnamento o emozione: come se volasse sulle ali del suo Pegaso ed attraversasse quella porta magica che divideva il Reale dall’Irreale.

Era come se la scrittura – insomma-  fosse davvero quel meraviglioso suo tappeto magico, capace di condurlo ad esplorare nuovi mondi … altre dimensioni; in cui sognare non era un lusso, ma un atto del tutto naturale! L’ancora di salvataggio ideale per resistere alle innumerevoli ingiustizie della vita e non andare a fondo definitivamente.

E in quella giornata strana il Pangalli si sentiva protagonista assoluto del “Fuoco”; uno dei romanzi meno conosciuti e forse poco apprezzati del vasto repertorio dannunziano.

 Il Fuoco era il meraviglioso manifesto che trattava in maniera assai esplicita la teoria e la poetica del superuomo,
un’ opera certamente molto elegante e diretta nelle sue mille sfaccettature; dove la stessa estetica e contenuto andavano a braccetto in una sinfonia di emozioni altalenanti.
Per Alessio quello stesso titolo, quella stessa storia e soprattutto le molteplici indiscrezioni, che avevano preceduto la pubblicazione dell’opera, facevano dunque pensare che quel romanzo fosse stato scritto per raccontare l’amore etereo di cui tutti all’epoca parlavano; quello tra D’Annunzio e la divina; l’attrice per eccellenza Eleonora Duse.
E il Pangalli sognava di essere il protagonista del romanzo, quel tale Stelio Effrena. Un’anima spinta dal sacro fuoco dell’arte che  desiderava scrivere una grandiosa opera letteraria, che avrebbe di certo conquistato il favore dell’opinione pubblica e soprattutto quella del tempo!

Sarebbe dovuto essere quel capolavoro assoluto, nel quale l’artista stesso avrebbe trovato la chiave giusta di fondere con grande armonia: poesia, musica e danza, quest’ultimo elemento essenziale per creare una sorta di nuovo teatro. Ma purtroppo l’ambizioso progetto era destinato al più misero fallimento, poiché esistevano di fatto alcune forze negative che si opponevano allo stesso eroe.

Una di queste oscure forze prendeva il nome di “Foscarina Perdita” ovvero la più grande attrice del tempo , una donna bellissima ma complicata, perché non risolta del tutto.

Una donna, folle d’amore alla maniera di una moderna “Didone”,  che, con il suo smisurato amore,a volte nevrotico e possessivo, ostacolava non poco l’ eroe nella sua impresa.

Il romanzo si concludeva con il sacrificio inaspettato di Foscarina, che, alla fine, vinta ed affranta dagli eventi, lasciava libero  Stelio.

Ma  nonostante questo sacrificio, il protagonista non sarebbe riuscito affatto a portare a compimento questa sua grandiosa opera; in quanto, il dolore lancinante dell’abbandono totale della sua amata, aveva provocato in lui una specie di blackout creativo, un tremendo blocco emotivo, che aveva sicuramente messo alla prova il suo essere uomo- artista ed amante.

E Alessio rappresentava in sé tutte le caratteristiche peggiori di Stelio e Foscarina. Sicuramente non era un uomo facile da amare, supportare -o per meglio dire- sopportare.

Era capace di grandi slanci passionali, donandosi completamente se ne valeva la pena; ma era scorbutico, nevrotico ed asfissiante nei momenti in cui sentiva scemare l’interesse del partner.

E poi era volubile, capriccioso … teatrale fino alla nausea, la sua megalomania usciva da tutti i pori!

Era la classica “diva sul viale del tramonto”, che nonostante tutto aveva ancora la sfacciataggine di tirarsela.

Come sei quei riflettori fossero ancora puntati tutti su di lei, in una luce quasi mistica!

Non aveva ancora capito, Alessio, di essere un buffone da quattro soldi, sempre sull’orlo del precipizio; una triste macchietta di ciò che era stato anni prima, durante i suoi spettacoli più riusciti!

A volte si sentiva anche come quel vecchio clown da circo, rugoso e claudicante, che, imperterrito, si affannava a calcare ad ogni costo quel palcoscenico sotto il tendone della nostalgia.

E non si rendeva neppure conto che ormai era “ demodé”; scontato e privo di mordente. Era una specie di patetica parodia di se stesso e certamente le sue battute … le sue freddure non erano altro che una colossale farneticazione di umilianti déjà vu.

Ma Alessio più si guardava dentro; più si scopriva identico ai suoi personaggi letterari preferiti e in questo caso si sentiva vicino e uguale all’anonimo regista squattrinato e privo di talento del romanzo di Moravia del 1971 dal titolo “Io e Lui”.

Un libro che fu accolto dalla critica dell’epoca con un certo snobismo e pregiudizio, sicuramente immotivati; in quanto si storceva il naso sulla scabrosità dell’argomento.

Ma non si poteva esimersi dal valutare questo romanzo, alienandosi da banalità e da facili giochi di doppio senso di infimo gusto. Occorreva quindi mantenere una certa lucidità intellettuale e prendere in considerazione l’originalità di questo contenuto.

Ed Alessio – da bravo studioso quale era – lo sapeva benissimo!

Per questa ragione, in queste pagine lui vedeva e viveva una vera e propria conversazione “ freudiana” dell’umano inconscio; così da provare tutte le emozioni e il pathos, che lo stesso miserrimo protagonista provava sulla sua pelle, ogni qualvolta aveva a che fare con il suo tracotante organo genitale, sempre impegnato nella spregiudicatezza dei suoi mille atti libidinosi.

Si può dire quindi che il Pangalli si era catapultato in uno spassoso “j’accuse” sulla sua mediocrità fisica e spirituale di individuo.

E, poiché aveva tentato, come un mantra irrinunciabile, di mostrare al mondo circostante la sua forza e la sua virilità; aveva sempre  ignorato la sua bellezza di “ persona” pulsante e pensante. Aveva quindi puntato, in più occasioni della sua sgangherata giovinezza, solamente sulla potenzialità della propria prestazione sessuale, non accorgendosi in questo modo di aver sfiorato – il più delle volte-  il ridicolo e peggio ancora di  essere caduto nella più bassa forma di pietismo generale.

Aveva ben compreso che per una buona parte della sua vita aveva vissuto di istinto, caccia e soprattutto fame di sesso. Per lui la donna non doveva che rappresentare una sorta “di silenzioso schiaccia pensieri”, capace di donargli brividi caldi sulla giostra dei sensi.

Al giovane Alessio non fregava niente di farfalle nello stomaco o di violini zigani nelle orecchie; lui doveva solo quagliare ed arricchire il suo museo delle cere!

La sola idea di famiglia lo faceva rabbrividire; perché per lui il figlio non era altro che un cecchino pronto a tradirlo alla prima occasione buona e a fargli la pelle senza preavviso. Un cane, un gatto, un coniglio e perfino un pesce rosso si sarebbero dimostrati migliori! Sicuramente per fedeltà, amore e soprattutto per lealtà!

Ma da quando aveva conosciuto Diamante tutto era davvero cambiato per Alessio.

Infatti quel giovane” vitellone “, arrogante, tronfio e pieno di sé degli anni della spensieratezza, aveva lasciato, in modo definitivo, il posto ad un Pangalli certamente più “uomo” che burattino nelle mani della più cruda ovvietà.

Diamante era riuscita là dove la figura materna … la scuola e soprattutto la società avevano fallito miseramente; perché forvieri di troppa accondiscendenza e latitanza.

La ragazza, infatti da sola, era stata in grado di conquistarlo, con la determinazione dei suoi vent’anni e con la dolcezza d’azione, che sempre l’aveva contraddistinta. Diamante era quel tesoro ancora grezzo  che mai avresti sperato di poter incontrare nella tua vita!

Quel suo essere piacevolmente fuori dalle righe; un punto di colore in un quadro nero come la pece, conquistava a tal punto da renderla un’anima unica tra i comuni mortali.

Silenziosamente lei si poneva fuori da ogni fastidiosa ovvietà precostituita ed era per questa semplice ragione che sapeva prendere Alessio ed infondergli una nuova voglia di vivere.

E così il Pangalli, senza rendersene conto, era stato per la prima volta educato all’amore; sentimento inteso come mistero di rara bellezza e di genuina verità.

Grazie a Dio aveva proprio lui tolto finalmente la sua maschera da super eroe “nietzschano “ ed era sceso a patti con i suoi stessi simili, abbandonandosi alle emozioni, alle vittorie e alle sconfitte del cuore!

 

 

CAPITOLO SESTO

 

Alessio Pangalli si era ormai reso conto che quella nottata fuori da ogni logicità lo stava letteralmente consumando, del resto fino a quel momento non si era mai preso la briga di fare veramente i conti con se stesso. Aveva sempre soffocato con grande freddezza ogni minima sbavatura del suo spigoloso carattere; aveva nascosto in modo assai imbarazzante ogni sua grande paura e ogni sua piccola fobia.

Finalmente quel buio profetico lo aveva trascinato con una certa prepotenza sulla lastricata “strada della luce”; era come se avesse vinto una specie di terno al lotto, che lo aveva portato ad un meraviglioso ricongiungimento con se stesso. Aveva dunque ben compreso che anche lui era creatura dell’universo e come tale aveva il sacrosanto diritto di esistere e di scrivere a pieno titolo il suo romanzo esistenziale.

Alessio aveva vinto la sua guerra personale contro l’esercito invisibile dei suoi demoni più atroci … gli aveva sconfitti uno ad uno ed ora poteva annunciare al mondo intero che aveva ritrovato “ la sua BUSSOLA” vitale.

Non era più l’ ALBATROS di Beaudelaire, lo spauracchio di quella ciurma- canaglia, che, a calci e a pugni, lo massacrava senza pietà, seviziandolo nei pensieri e nel cuore.

Ora si sentiva leggero e felice … era come se fosse rinato dalle sue stesse ceneri! Si sentiva ebbro e fiero di sé; provava le stesse sensazioni allucinate che il “ vecchio Marinaio” di Coleridge giocava nella sua ballata. Era stato capace, grazie ad una forza di volontà incredibile, a tenere testa – con onore- a quel killer silenzioso, abominevole mostro che gli rodeva dentro.

Questa volta avrebbe  mancato davvero poco; perché il povero Alessio mettesse un piede in fallo e cadesse rovinosamente nel baratro!

Fortunatamente tutto ciò non si era verificato, perché in quel suo fatidico cinquantesimo compleanno una mano misteriosa lo aveva raccolto lungo quella strada tortuosa del DUBBIO e lo aveva spronato a seguire quella luce che piano piano lo avrebbe certamente riportato ad una sana ed onesta connessione con se stesso e il suo piccolo mondo.

Quel suo piccolo mondo “antico” che rappresentava senz’altro la parte più difficile di un romanzo esistenziale ancora tutto da scrivere .

Erano giunti, come fulmine a ciel sereno, quei maledetti anni novanta, preludio di quello schifo che sarebbero stati  poi gli anni duemila.

 Gli anni novanta di fatto non avevano che ucciso definitivamente l’idillio del decennio precedente; accompagnando l’essere umano alla resa dei conti.

Questi anni massacro non segnarono altro che una caterva di sfighe, una dietro l’altra; tanto è vero che anche l’adorabile vecchina di Windsor – pace all’anima sua- aveva fatto le macumbe, affinché quegli anni nefasti sparissero dal suo calendario.

E come darle torto … “Dio salvi la Regina!” …   i suoi figli avevano sbroccato di brutto.

Perfino il real consorte, tanto simpatico quanto pestifero, à la mode del Dennis cinematografico, ogni qual volta che apriva bocca, lasciava sulla sua strada un cadavere illustre, e ciliegina sulla torta …  un uomo nudo era riuscito a raggiungere la nobile alcova della Betty super star!

Se da una parte ci si masturbava il cervello con le aristocratiche beghe della “ Famiglia Mezzil versione the delle cinque’’; ci pensava il Saddam, a giocare la carta “ del mondo è mio”.

In parole povere l’esoso, l’arrogante di turno si metteva  a dare di matto, decidendo di fare una capatina poco cortese nel vicino Kuwait. E i “buoni Russi’’, gli amici di DESTRA, devono aver preso il suo sudore, visto e considerato che ancora oggi adorano giocare a risiko sulla pelle altrui! Ma non erano i Tedeschi i brutti e cattivi per contratto?

E non si poteva neppure dimenticare i Balcani che, come polveriera fuori da ogni controllo, esplodevano nella loro rabbia; mentre la vacca umiliata impazziva.

Ma cosa faceva il Bel Paese che di porcherie era maestro? Con lacrime da coccodrillo, sotterrava – per convenienza politica, persone come Falcone e Borsellino. Naturalmente tacendo, nascondendo ed insabbiando;  perché cavolo sarebbe stato davvero disdicevole che per una volta ad Amatriciana City si avesse avuto le palle dire una volta tanto la verità …  Ustica docet! 

E cosa faceva di bello il baldo Alessio Pancalli? nel mentre questo marasma andava lentamente manifestandosi; lui si rivoltava, senza pietà, contro quel bimbo felice, patetico leitmotiv Pascoliano.

Lo narcotizzava con rabbia, vomitandogli addosso tutta la sua inquietudine, tutti i suoi fallimenti; tanto che il poverino oramai andava dolcemente addormentandosi  in lui, vegetando nauseabondo.

Nel 1991, a soli 65 anni, se ne era andata sua nonna, una donna colta ed elegante, dalla quale aveva ereditato l’amore per la scrittura e per la letteratura.

Se ne era andata in silenzio, come del resto aveva sempre vissuto, seguendo alla lettera quel diktat folle che quella piccola città di provincia, in cui era nata e alla quale era legata, le aveva sempre inculcato.

Aveva supportato e soprattutto sopportato un compagno di vita che, nonostante l’avesse amata veramente, aveva delle colpe e delle mancanze nei suoi confronti; che sicuramente avrebbero leso la sensibilità e la dignità di qualsiasi donna.

 Con la sua vicinanza e i suoi silenzi, aveva aiutato suo marito nella sua realizzazione personale, rispondendo a pieno titolo a quel detto “ dietro un uomo ci sta sempre una grande donna.”

Di certo lei non si era  meritata affatto quello che la sua breve vita le aveva offerto: pugnalate nella schiena; abbandoni e tradimenti ad ogni livello. Ma nonostante tutto aveva vissuto a testa alta, mostrando sempre la stessa classe sia nella buona sorte che nella sfiga più nera!

L’unica cosa che consolava Alessio era che  sua nonna non si era mai   lasciata abbindolare da quel vecchio adagio ignobile, che predicava come  l’istruzione dovesse essere ad appannaggio esclusivo del mondo maschile; perché alla donna bastava una scopa e uno straccio per essere felice.

 La scomparsa di sua nonna lo aveva lasciato stordito, perché era la prima volta che vedeva la morte passargli vicino.

 E poi era rimasto confuso dal fatto che  lei avesse lasciato questo mondo perennemente in silenzio, in punta di piedi, come del resto era suo solito fare. La sua caratteristica pregnante era: due passi indietro e camminare nell’ombra, senza mai lamentarsi dello schifo che la circondava e ingoiando mille e mille bocconi avvelenati!

Morì, in un modo inaspettato, mentre stava lavando i piatti, nessuna avvisaglia, un tonfo e tutto era finito!

Si può dire che da bravo soldato era morta sul campo di battaglia! La sua scomparsa mi ricordava quella di Goethe, lui non morì con un piatto in mano, ma stringendo la sua adorata penna,accasciandosi su quel foglio ancora vergine.

Tutti si ostinavano a dire che lei fosse morta in modo naturale a causa del suo cuore che faceva le bizze.

Ma Alessio non aveva mai creduto a questa versione di comodo, a questa bella leggenda metropolitana.

Per lui lei era stata deliberatamente assassinata da questo Paese balordo ed insensato, retto da quelle sue assurde leggi TALEBANE, degne di essere segnalate ai posteri per la loro imbecillità e per la loro ignobile capacità di umiliare il deficiente di turno. E la cosa più fastidiosa per il Pangalli  era che sua nonna, nonostante tutto, andasse sempre fiera e orgogliosa di quello Scarponcino logoro e ruffiano.

La sua amata Italia, sempre pronta a mettertela in quel posto, per mano del suo Sicario, un certo amico Fritz,  infatti l’aveva tradita, umiliata  senza ritegno. Le aveva rubato – oltre che alle sue certezze - tutto quello che in anni di sacrificio aveva costruito con suo marito e suo figlio.

Grazie all’intelligenza e alla modernità delle leggi barbare targate anni 80 e di qualche funzionario di discutibile moralità, ingrassato a dovere dal suo vorace “magna- magna”,  lei si era vista marchiare, additare e scansare.

Purtroppo non aveva sopportato il peso dell’intera situazione, soprattutto non aveva retto al voltafaccia dell’inqualificabile parterre a cui era abituata, che, quando le vacche erano grasse e potevano essere munte con allegria, non si sapeva più come scrollarselo di dosso; mentre, quando  l’acqua diventava torbida ed imbevibile … si assisteva con sdegno ad un vigliacco “exodus”!

Ma diciamocela tutta per Alessio anche il 1992 non fu di certo una buona annata, perché purtroppo si replicava con il tema della morte, come in un gioco al massacro, le cui porche regole ti spaccavano dentro, e tu purtroppo restavi basito e non ti riconoscevi più.

Ti  sentivi come Mork di Ork, un marziano qualunque piovuto dal cielo, che cercava invano di fuggire dal tutto.

In  una maledetta notte di novembre, vestita a candide nozze con quella verginale nebbia, si addormentava per sempre il suo migliore amico, quello delle elementari, quello che ti aveva insegnato il valore dell’amicizia, della condivisione e della appartenenza.

Aveva perso il controllo – per un malore- di quella sua utilitaria assassina, che lo aveva portato ad una inesorabile e malinconica uscita di scena.

Quanto era stato bastardo e perfido il maledetto destino, di lì a poco JACOPO  avrebbe compiuto vent’anni, un lavoro e una compagna di vita gli permettevano di sognare il suo domani; che purtroppo si era trasformato in una utopia lunga un’eternità!

Che storia !  il più giovane della sua classe sarebbe stato  anche colui che avrebbe dovuto congedarsi  per primo da questo manicomio all’ italiana.

Alessio seppe la notizia della morte di Jacopo attraverso una scarna e circostanziale telefonata, fatta per grazia ricevuta da quella ex compagna … la secchiona della combriccola.

Al momento rimase frastornato a tal punto da accogliere l’evento con estrema freddezza e con un disgustoso distacco.

Tanto da apparire all’ esterno, sempre pronto a pontificare – farsi i cavoli propri un optional!- come l’essere più immondo ed insensibile in circolazione.

Come se il suo io mettesse in atto il blasonato motto anglosassone: niente lacrime, siamo inglesi.

Ma la verità era una sola che proprio lui non era ancora pronto ed educato alla cultura del dolore, nonostante era il secondo lutto che lo perseguitava.

A vent’anni era così cretino, arrogante e sbruffone, da pensarti immortale, da credere di possedere quella forza necessaria per fottere il destino, manipolandolo a proprio favore.

Aveva la pretesa assurda di autoproclamarsi, in preda alla sua boriosa follia, re del mondo e di spaccare tutto, cambiando e migliorando i connotati di ciò che lo circondava.

Balle solamente balle! Era solo un “pistola’’ qualunque; un malato patologico che pensava in grande per poi risvegliarsi nella cacca della sua vanità.

Partecipò alla cerimonia di quell’ultimo SALUTO in quella chiesa dall’anima barocca … e nonostante brulicasse di gente in quel frangente di lutto, la CASA di DIO gli appariva vuota e bugiarda.

Di quella giornata, così bigotta e telecomandata, ricordava ancora il dolore tagliente, tangibile e compatto, di quella povera madre straziata dalla più grande crudeltà della vita.

Non aveva rubato, non aveva spacciato, non si era prostituita o fatta e tanto meno non si era  macchiata con l’onta di un assassinio. Eppure era stata punita in quel modo subdolo e vigliacco.  Non vi era castigo peggiore per quella madre di sopravvivere alla propria creatura. Era la sconfitta del cuore e la morte dell’anima!

 Lei fondamentalmente se ne era andata insieme al suo bambino; perché se fisicamente lei era rimasta attaccata al quotidiano, spiritualmente era volata via.

Alessio in quell’occasione di profondo dolore riuscì solamente a porgere le sue fredde condoglianze, perché se avesse tentato di aggiungere altro avrebbe solamente violentato il dolore dignitoso di quella famiglia.

Uscito dalla chiesa si trovò catapultato suo malgrado in un ginepraio di falsità, una sciarada di comportamenti artificiali, studiati a tavolino per fare della bieca sensazionalità in quel nefasto evento.

Insomma THE SHOOW MUST GO ON … tutto doveva fare spettacolo, soprattutto in una piccola città di provincia di circa 35 000 sopravvissuti alla noia e al pettegolezzo gratuito, dove l’importante non era essere, ma apparire!

Di tutta quella vegetazione di persone inutili non riusciva più a riconoscere nessuno dei suoi ex compagni delle elementari, gli sembravano alieni sbarcati dal nulla.

Si accese per la gioia dei suoi polmoni una sigaretta e si mise in disparte, in un cantone lontano dall’ovvietà,  tentando di metabolizzare al meglio quella rappresentazione distorta della realtà.

Gli faceva veramente ribrezzo sentire quelle grasse bocche sporcare il ricordo di uno di loro con quella vergognosa accozzaglia di frasi fatte, così circostanziali e sterili.

E quando vide la macchina che accoglieva la salma  lasciare lentamente quel piccolo spiazzo davanti alla chiesa, li sì che realizzò che Jacopo non c’era più e che un’ epoca ormai si era dissolta per sempre … come neve al sole!

Piano piano il Pangalli cominciava a sentire freddo dentro e allo stesso tempo percepiva il calore di quelle lacrime, che iniziavano a scendere copiose su quelle guance pienotte.

 Aveva ben compreso, a malincuore, che forse la parte più bella di sè, quella più vera, più sincera e libera, se ne era andata in modo definitivo con lo stesso amico di banco.

Jacopo aveva senz’altro rappresentato quello spicchio di vissuto che si era concretizzato in  una bellissima fanciullezza; dove si poteva di certo affermare di aver toccato il cielo con un dito e di aver abbracciato la vera felicità, quella che veniva una volta sola nella vita.

E così l’ IO di Alessio aveva mestamente chiuso un ciclo e si apprestava ad una sorta di rinascita interiore, doveva prepararsi a compiere un lungo viaggio per inseguire nuovamente il suo NON IO corrispondente.

Insomma aveva l’ obbligo morale di cercare e di crearsi una nuova identità.

Ricordare quegli eventi spiacevoli era per Alessio come riportare a galla tutto quel pattume che aveva, nolente o volente, portato con sé fino a quel suo giro di boa dei suoi primi cinquant’anni.

E quella notte, davvero speciale, andava presentandosi a lui come un inaspettato e dolce appiglio per far pace finalmente con il mondo intero.

Quel mondo che a lui andava stretto; perché non aveva mai potuto viverlo fino in fondo e come voleva; aveva indossato troppe maschere per compiacerlo, violentando, inevitabilmente, la sua testa e il suo cuore.

Era stanco; demotivato; troppo incazzato dentro per continuare - fino alle calende greche- quella sua assurda guerra quotidiana contro la stupidità e l’ipocrisia imperante.

Aveva quella voglia matta di una nuova musica, magari più leggera e soprattutto meno ruffiana!

E quella meravigliosa luna, amica pallida, malinconica vestale, avrebbe, senz’altro avvallato l’inizio di un canto nuovo.

Oramai Alessio aveva capito fin troppo bene che il suo  “ IO PRECEDENTE’’ era morto definitivamente, per propria mano. Che pugnalata si era dunque dato… Quanto sangue scorreva in quella resa dei conti senza precedenti!

E mentre faceva ciò gli vomitava addosso  tutto il suo rancore e tutto il suo disprezzo … quanta rabbia aveva provato contro quell’ IO BASTARDO  che prima lo aveva illuso con moine e carezze di ogni sorta; e alla fine lo aveva “ buggerato’’,  portatolo quasi alla follia.

Jacopo aveva rappresentato, senza ombra di dubbio, per Alessio, il suo primo ed unico vero amico; la persona  che aveva vissuto le sue stesse esperienze; quell’animo prezioso che lo aveva sopportato semplicemente per quello che lui stesso era.

Insomma era  quel miracolo inaspettato e genuino che lo supportava – esortandolo-  in tutte quelle sue follie dell’infanzia!

 Ed ironia della sorte non esisteva persona a quel tempo, capace come Alessio di fare della pazzia [ovviamente quella sana … creativa e non malata e distruttrice] una sorta di priorità di vita. Perché vivere di perfezione ed imposizione significava rinunciare a priori alla propria unicità, dando un calcio definitivo alla medesima dignità della persona!

Jacopo non lo giudicava mai per tutte le sue innumerevoli “cazzate’’ e in silenzio  sempre gli tendeva la mano ogni volta che era in crisi,  in procinto di cadere, oppure ti trovavi sull’orlo del precipizio.

Se il Pangalli sbagliava e questo era prassi!  Per riportarlo alla ragione ed evitargli così una débacle clamorosa …  Jacopo dimostrava in ogni occasione quella forza e quella determinazione di dargli un calcio nel sedere, facendolo sentire un vero schifo!

Jacopo era sempre visto da Ale come un bambino dalle guance alla “Arnold’’ e dagli occhi furbi che ridevano sempre.

Lo immaginava ancora in quel cortile, su quello spiazzo di cemento della scuola elementare; mentre giocavano nella loro, FANTASILANDIA, a  “barone rosso” o a “ sopra” con le figurine di Daltanius o con quelle degli Astrorobot,  gli eredi naturali di GODRAKE e di MAZINGA.

Un anno a Carnevale, si ricordava perfino, che in vista della ovvia festa in maschera, allestita nel cortile della scuola …  si erano messi d’accordo per vestirsi … uno da “Actarus’’ e l’altro da “Alcor’’. Naturalmente dopo una sana e costruttiva presa di posizione reciproca !

Tante volte quando il Pangalli era in vena di malinconie, soprattutto all’alba di questi suoi primi cinquant’anni, dove il rincoglionimento generale:  “piagnoneria’’ e “andropausa galoppante”  erano ormai alle porte; sentiva nella sua testa ronzare gli echi lontani delle conte e delle filastrocche, che avevano allietato e scandito gli anni più belli del suo essere bambino.

E così  rammentava la ballerina dentro un vaso di porcellana o il mitico coccodrillo di palude e le sue donne nude.

I genitori di Jacopo gestivano un’ attività di generi alimentari … che il cielo abbia sempre in gloria le piccole botteghe.

E tutto qui, in quel villaggio del Bengodi,  era stato una festa senza fine; un happening da mille e una notte.

Se il burattino di legno aveva trovato il suo PAESE DEI BALOCCHI; lui modestamente, come cantava la Patty, aveva varcato il suo Paradiso; altro che “oggi qua e domani là!’’

Innanzitutto l’Alessio era sempre informato ed aggiornato sulle ultime novità in materia di brioches e di merendine e quindi aveva la certezza matematica di entrare in possesso delle sorprese ad esse abbinate, quindi le tanto agognate gomme da cancellare e le altre piccole vettovaglie dell’epoca.

E poi che dire di Pasqua: ” libidine doppia libidine’’ – come predicava Jerry il gatto miracolato- la festa durava due o tre settimane in più rispetto al calendario gregoriano.

Loro, infatti, alla faccia del colesterolo e della glicemia, andavano nel retrobottega del negozio, una specie di Las Vegas del godimento, per far sparire gentilmente qualche reso di uova di cioccolato.

E da bravi “ Cip e Ciop’’ si dividevano equamente – come insegnavano gli almanacchi delle giovani marmotte-  i regali che trovavamo all’interno.

Che dire poi del momento dello spuntino …  era all’ordine del giorno, del resto a sette, otto anni si trovava sempre un giusto motivo per festeggiare.

Avevano anche creato una serie di prelibatezze; altro che Cracco, un dilettante!

Dal salame nostrano ricoperto di cioccolato spalmabile all’ovetto di cioccolato ripieno.

Jacopo non aveva difetti, forse l’unica pecca era in campo calcistico, lui come il resto della sua famiglia era zebrato, simpaticamente gobbo per capirci meglio, con una ammirazione spasmodica per MICHEL  le  ROI.

Mentre Alessio, pur non capendo una mazza di calcio, era stato indottrinato dalla sua stirpe a tifare Inter,  meno male che nell’età della ragione era guarito e tifava Atalanta.

Suo  fratello, invece, bontà sua e sfiga di Alessio, gli recitava ogni giorno, come mantra o punizione per essere venuto al mondo, la formazione tipo del biscione e aveva anche l’orrenda e assurda pretesa di essere ascoltato in religioso silenzio, rapito da tutto quel suo sommo sapere.

E quindi vai col samba: BORDON – ALTOBELLI- BARESI – BECALOSSI RUMENIGGE  E MULLER … in panchina BERSELLINI … presidentissimo PELLEGRINI.

Lui, Jacopo, a differenza del Pangalli, era un tipo sportivo, molto bravo a giocare a pallone e infatti vestiva la casacca di  una squadra locale.

Inoltre amava trascorrere ogni domenica a pesca in compagnia di quel fratello maggiore del quale lui era molto orgoglioso .

Jacopo ed Alessio avevamo una specie di tacito accordo … una sorta di alleanza silenziosa che prevedeva la  suddivisione delle incombenze scolastiche.

Ovvero il secondo si occupava delle materie umanistiche; mentre il primo si prodigava a togliere le castagne dal fuoco per quanto concerneva  quelle scientifiche.

L’amicizia con Jacopo aveva senz’altro scandito la parte più pura, quella più pulita dell’ esistenza di Alessio, quella dei mitici anni ottanta, quando si aveva ancora voglia di ridere e tutto aveva un non so che di meravigliosamente leggero e profumato.

Al cinema trionfavano pellicole come “ college ” e “il tempo delle mele”.

Mentre alla radio si  consumava ore ed ore di “ Lisa se n’è andata via, stupida la sua follia”; oppure “bevila perché è tropicana yè “

Intanto la signora Luisa non puliva il gabinetto haa! E il signor Camillo, l’adorabile occhialone si faceva palpare a destra e a manca.

E che dire di quella insopportabile bambina con le trecce se la tirava godendo come una matta perché l’ennesimo ago l’aveva bucata.

E cosa faceva Heidi? Cantava la sigla della “ BANDA DEI CINQUE” sollazzandosi per la gioia del gossip casereccio con Golden Boy.

Si giocava a SIMON o a MISTER MIND  e quando si scendeva in sala giochi c’era il buon vecchio tavolo da PING- PONG o il biliardino dove era peccato originale “rullare’’.

Ma soprattutto si aveva il buon gusto di pensare con la propria testa, di viaggiare con la propria fantasia, di guardarsi negli occhi mentre ci si parlava e ci si ascoltava.

Si prendeva carta e penna per scrivere lunghe lettere, magari ridondanti e piene di errori, ma vere e avvolgenti.

E cosa meravigliosa c’erano solo quelle piacevoli cabine telefoniche; dove prima di poterle usare dovevi aspettare che i piccioncini di turno smettessero di tubare.

 E poi una volta entrati le maledette ci pensavano loro a prosciugarti le tasche, ciullandoti, senza pietà, quei  vecchi e cari gettoni; oppure liberandoti dalle cinquanta, cento e duecento lire.

L’amicizia con Jacopo era stata per Alessio senza ombra di dubbio una bellissima avventura, anche se purtroppo troppo breve; era stata un fantastico dono del destino, perché solo in questo frangente lui era riuscito a guardarsi allo specchio, a piacersi e cosa fondamentale a trovarsi.

La morte di Jacopo improvvisa ed insensata lo aveva risvegliato bruscamente dal suo esilio dorato e per la prima volta aveva sentito un certo freddo nel cuore, una sensazione che fino a quel momento non aveva mai provato fino in fondo.

Alessio nel suo silenzioso dolore aveva ben compreso che un ciclo era ormai finito e che una nuova epoca, oscura e enigmatica, si stava prepotentemente facendo largo.

Ne prese atto ma mai lo accettò e forse nel suo inconscio non lo avrebbe  mai accettato!

 Per Alessio, Jacopo  e tutto quello che il suo ricordo, tanto piacevolmente nostalgico, quanto assai ingombrante, provocava … non era altro che un pesante sospeso; o per meglio dire un perpetuo senso di colpa.

In primo luogo l’onta di aver trascurato la loro speciale amicizia. Jacopo infatti se ne era andato senza che il Pangalli avesse avuto l’opportunità tangibile di salutarlo, guardandolo negli occhi. Tutto ciò era stata una pugnalata alla schiena;  perché non doveva andare in questo modo, lui non se lo meritava.

Per Alessio proprio lui – il buon Jacopo -  aveva fatto forse uno dei gesti più forti ed unici, che solo un vero amico, avrebbe potuto concedere a cuor leggero e questo suo gesto veniva taciuto e conservato, come reliquia, nell’animo dello stesso Ale che mai avrebbe smesso di ringraziarlo.

Ma la cosa più vergognosa – che lo disgustava solo nell’averla concepita e soprattutto nell’averla messa in pratica- era stato il fatto che, dopo la celebrazione del funerale, non gli aveva mai portato  un fiore sulla sua tomba.

Ad essere sinceri, stronzo il Pangalli, non conosceva neppure il punto esatto dove il povero Jacopo fosse stato sepolto.

Non l’aveva mai voluto sapere, forse perché la sua morte lo aveva letteralmente fatto troppo incazzare.

E poi pensava che i cimiteri non fossero altro che luoghi freddi e grandi fucine di ipocrisia, dove i vivi andavano a lavarsi la coscienza nei confronti dei defunti.

In questo comportamento di certo un pò blasfemo da parte di Alessio, ci si poteva, dunque, tranquillamente leggere della sana e sempre di moda vigliaccheria umana.

Diciamolo pure ai quattro venti il Pangalli aveva agito secondo un suo copione esistenziale, aveva fatto quello che sapeva fare meglio nella vita … scappare con classe senza voltarsi mai indietro.

Aveva dunque intrapreso una improbabile fuga da se stesso, si stava purtroppo sempre più rendendo conto di impantanarsi in un castello di paure e di mezze verità.

La morte di Jacopo aveva anche segnato quello spartiacque tra lui e la sua scenografia di vita. Era dunque andato a ramengo quel rapporto di  fiducia tra lui e quella cittadella di provincia che per sbaglio gli aveva dato i natali. Si era inevitabilmente venuta a creare una frattura insanabile. Falsità, moralismo da due soldi erano all’ordine del giorno: quanti sorrisi di plastica e quante coltellate ! Ogni piccola cosa in quel piccolo mondo antico andava amplificata ad ogni costo perché tutto faceva audience! Le persone ritenute sgradite o non consone a quella mentalità da casa nella prateria venivamo additate, messe alla gogna, marchiandole a fuoco come bestie da macello. Farisei che la domenica erano sempre in chiesa, predicando pace e amore, baciando la balaustra; mentre durante la settimana da bravi cecchini imbracciavano il fucile e ti facevano la pelle. Una cittadina con la pretesa assurda di sentirsi grande, da possedere una ferrovia  giusta giusta per i Playmobil, con due umili direzioni; per il resto bisognava semplicemente affidarsi al destino!

Sicuramente l’ Alessio Pangalli era quello che era;  perché aveva respirato quest’aria da balera!

 

Conclusioni

Era accaduto tutto in una notte; la notte della svolta, quel momento di solitudine primordiale, in cui si risvegliavano calde e soffocanti tutte quelle forvianti verità, che erano state volutamente nascoste nei meandri di una vita piatta ed inutile, fatta di imbarazzi ed allucinazioni di ogni tipo.

Ed Alessio Pangalli, eroe sbiadito del suo tempo, questo purtroppo lo sapeva benissimo! Perché lo aveva annusato e provato molto bene sulla propria pelle …

Aveva, infatti, trascorso questo suo atroce momento catartico in un profondo e proficuo religioso silenzio; in compagnia di tutte quelle sue fottute paure, che, vigliaccamente, non la smettevano più di importunarlo, facendogli riaffiorare alla mente, con estrema dolcezza, barbari ricordi, che gli toglievano letteralmente il fiato, gettandolo --- senza alcun ritegno--- nelle avvolgenti grinfie dei suoi fantasmi più neri.

Aveva dunque, per necessità personale, rivissuto parte della sua infanzia … della sua giovinezza; accorgendosi, a malincuore, che, in fondo, proprio lui aveva smarrito in modo vergognoso parte della sua medesima identità; riducendosi ad una imbarazzante larva, uno sconclusionato ed alquanto insignificante BURATTINO, i cui fili erano mossi dalla STUPIDITA’ dilagante.

Si era creato perciò un incolmabile vuoto attorno a sé … non vedeva più colori, non percepiva più profumi; si limitava a vivacchiare, perché la sua stupida natura a lui lo imponeva.

E proprio quel buio e quella impotenza generale lo stavano piano piano risvegliando da quel maledetto letargo esistenziale.

La vita non era che un inaspettato groviglio di fregature e di piccole battaglie …  fughe ed esperienze che andavano gettandoti  in una sorta infernale di TRITATUTTO ESISTENZIALE; dove il cecchino più in gamba, quello più svelto, con la bava alla bocca, non vedeva l’ora di impallinarti al muro.

Si veniva, piaceva o meno, catapultati involontariamente in una sorta di bosco immaginario: una foresta impietosa di mostri malvagi, vestiti di quei mille e mille fallimenti che ti inseguivano – senza darti tregua – fino a quando non ti prendevano per le palle e per sfinimento. E tu, umiliato, tradito e marchiato come quel povero porco pronto al macello, non vomitavi l’anima.

Ed Alessio, il deficiente di turno, quante volte in quella sua disgustosa commedia umana – Zola l’avrebbe baciato in bocca per la sua proverbiale sfiga- si era cacciato due dita in gola per sopravvivere alla FOLLIA ITALICA!

Né RATIO né CUORE  né PIETAS potevano salvarti dalla tua gogna, perché oramai eri segnato, additato da quei FARISEI vestiti a festa come quella scheggia impazzita che sputava nel piatto in cui era costretto a mangiare.

E allora ti accorgevi, che solamente dei profetici incontri, quelli benedetti dal DESTINO,  potevano donarti per cinque minuti quello strano prurito di una felicità ritrovata.

 E proprio in queste circostanze ti affannavi a ricostruire il tuo puzzle esistenziale, sperando di non aver perso  il tassello più importante … perché altrimenti ti accorgevi, ahimè, di non essere servito a niente e ti risvegliavi nudo come un verme, riscoprendoti una “PIPPA”!

L’incontro con queste anime belle, così diverse tra loro, così fuori dal comune da quella massa uniforme di ciarpame arrogante, fonte solamente di illusioni e di disillusioni; avevano realmente regalato ad Alessio  alcune fra le pagine più belle e  poetiche del suo vivere.

Loro erano state aria nuova, quel respiro di rinascita e maturazione intima che senza saperlo avevano nutrito di curiosità e di intrigo intellettuale la sua penna e le sue carte.

Ripensare alla dolcezza di Rebecca, alla poetica sventura di Frau Muller, allo sguardo malinconico di uno smarrito Lorenzo; per poi soffermarsi sulla sensuale problematicità di una irrisolta Diamante e toccare infine con mano quella triste dipartita di uno Jacopo beffato da un destino infame; aveva trascinato il nostro amico Pangalli in una benefica e necessaria resa dei conti  proprio con se stesso e con le sue numerose manchevolezze.

Adesso basta! Lui non ne poteva davvero più di tutta quella merda addosso! Voleva farla davvero finita una volta per tutte con le proprie criticità emotive; voleva finalmente costruirsi la sua zona confort di vita … Alessio infatti in questo suo viaggio alla piena scoperta del suo inconscio, aveva maturato la sacrosanta consapevolezza di voltare finalmente pagina.

Come lentamente il buio di quella notte propizia stava dolcemente scemando in quella delicata luce del primo mattino; così quel giovane uomo stava vedendo una via di fuga da quel labirinto di nefandezze, che lo avevano accompagnato fino a quel momento.

Il Pangalli aveva decisamente aperto gli occhi  e aveva perfino deciso di sguainare quella sorta di spada immaginaria contro tutto e contro tutti!

Da quel momento in poi avrebbe smesso di compiacere gli altri, non avrebbe certamente più fatto scelte sbagliate, deleterie ed impopolari per lui e la sua sensibilità di essere umano. Insomma si sarebbe lanciato in progetti che rispondessero a pieno ai suoi desideri e rispecchiassero sino in fondo il suo esclusivo progetto di vita.

Avrebbe cercato di conoscersi veramente, senza avere paura di trovarsi di fronte ad una persona diversa da quella che la sua immaginazione malata gli aveva inculcato.

Avrebbe abbracciato così la voglia  di perdonarsi una volta per tutte … per poi cogliere la palla al balzo e iniziare ad amarsi veramente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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